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di Enrico Molle
La recente uscita della serie TV targata Amazon Prime, Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, segna l’ennesima produzione cinematografica o televisiva che, in qualche modo, ci riporta indietro negli anni. In questo caso la mente viaggia verso quelli di inizio millennio, in cui vide la luce la suntuosa trilogia de Il Signore degli Anelli del regista Peter Jackson, adattamento cinematografico dei romanzi partoriti dal genio di Tolkien.
Nel caso specifico della serie prodotta dal colosso delle vendite online, tra l’altro con un costo altissimo che sfiora il miliardo di dollari solo per la prima stagione, forse poche persone si sono soffermate a riflettere sul fatto che, da un po’ di anni, si veda veramente poco di nuovo e originale e tanto di riadattato e rifatto.
Il motivo è presto svelato, l’universo creato dallo scrittore inglese conta, grazie anche alla trasposizione cinematografica dal grandissimo successo, milioni di appassionati in tutto il mondo e molti di questi, compreso il sottoscritto, avrebbero dato via un rene (si fa per dire) per respirare di nuovo quelle atmosfere.
Tuttavia è innegabile che, al di là della qualità dei vari prodotti (valutazione difficile e prematura da fare nel caso de Gli Anelli del potere, poiché la serie conta cinque stagioni e la prima è stata da poco rilasciata), la via per il prossimo futuro del cinema e delle serie TV, sembra tracciata: riproporre, rifare e rivisitare tutto ciò che ha funzionato in passato.
D’altronde, quando poco più di una decina di anni fa iniziarono prepotentemente a prendere vita sequel e prequel di ogni genere, alcuni dei quali con storie piuttosto improbabili, lo stesso Peter Jackson ci era cascato portando al cinema Lo Hobbit, adattando un altro romanzo di Tolkien, con una trilogia dalla dubbia efficacia che, fatta eccezione per il primo capitolo, appare confusionaria e affrettata. Il che non può non stupire considerato che dietro la cinepresa c’era lo stesso regista de Il ritorno del re, vincitore nel 2004 di undici premi Oscar.
Ora, andando oltre gli adattamenti cinematografici della produzione letteraria di Tolkien, citati in questa sede per fare da apripista nell’analisi di un fenomeno molto più ampio, è doveroso riportare il dato che vede tra i primi venti film più remunerativi di sempre ben diciassette remake o sequel. Tra questi compaiono alcuni titoli recentissimi come Top Gun: Maverick e Spider Man: No Way Home e altri, usciti alcuni e anni fa, come Jurassic World e Star Wars: Il risveglio della forza.
Questo ci porta a pensare che, considerate le difficoltà economiche affrontate dal mondo del cinema a causa della pandemia e ancor prima della concorrenza dello streaming, alle grandi case di produzione convenga molto di più puntare su una sorta di “usato sicuro” invece che su progetti nuovi e all’avanguardia.
Chiaramente tutto ciò crea una tendenza che si alimenta da sola, ingigantendo un fenomeno che ora, oltre ai già citati sequel e remake, percorre anche nuove strade come quella degli spin-off e dei reboot.
Nel pentolone, a conferma di una moda che è travolgente, ci rientrano anche opere che in passato si sono distinte per qualità e innovazione, ma che ora cedono il passo alle attitudini moderne.
È quanto accaduto, per esempio, alla saga di Matrix, trilogia uscita negli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio e che è divenuta un cult, influenzando persino il modo di molti di approcciare e guardare alla tecnologia e al futuro, tornata con un nuovo episodio a quasi vent’anni di distanza dall’ultimo film.
Le sorelle Lana e Lilly Wachowski, che hanno scritto e diretto la trilogia, hanno regalato al mondo del cinema una ventata di freschezza, soprattutto con il primo capitolo della saga, vincitore di quattro premi Oscar e scelto nel 2012 per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Da sempre avanguardiste e anticonformiste, le due sorelle hanno poi sceneggiato V per Vendetta, anch’esso divenuto un film di culto, e diretto l’incompreso Cloud Atlas, ponendosi tra i più visionari cineasti del nuovo millennio.
Eppure, una delle due, Lana, ha ceduto alla tentazione di riportare in vita ciò che sembrava perfettamente concluso ed è così che, quasi a sorpresa, nel dicembre del 2021, esce Matrix: Resurrection (poche settimane prima di Scream 5, altro sequel di una saga di culto che ritorna dopo molti anni), con tanto di Keanu Reeves nei panni del leggendario Neo e Carrie-Anne Moss in quelli di Trinity.
Il film, passato in sordina anche per via della costante presenza del virus SARS-Cov-2 che ha rallentato il generale afflusso nelle sale, è un buon prodotto che per larghi tratti scherza anche sul fatto di essere un sequel non necessario (e qui si riconosce tutto lo spirito Wachowski), un film piacevole che riesce appunto a “resuscitare”, senza fare grossi danni, una storia che tuttavia aveva funzionato benissimo e si era conclusa degnamente, in linea con lo spirito dell’opera stessa.
È lecito intuire che la realizzazione del quarto episodio di Matrix sia stata in definitiva voluta più dalla Warner Bross che da Lana Wachowski, quindi vien da chiedersi se fosse veramente necessario aggiungere un episodio a una narrazione che probabilmente aveva già detto tutto.
Nello stesso anno di Matrix: Resurrection è uscito anche Dune, diretto dal canadese Denis Villeneuve, nuovo “Re Mida” di Hollywood, regista dalle indubbie qualità, che prima del nuovo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Frank Hebert, già portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984, aveva messo le mani anche su Blade Runner 2049, sequel controverso di Blade Runner di Ridley Scott, film del 1982 che rimane a oggi una pietra miliare del cinema di fantascienza. Il Dune di Villeneuve, primo episodio di una trilogia, durante gli Oscar del 2022 si è portato a casa ben sei statuette, risultando il film più premiato, a riprova del fatto che non sempre è in discussione la bontà di film basati su storie rivisitate o riadattate, al contrario ciò ci fa capire quanto le grandi produzioni ci puntino fortemente.
A tal proposito basti pensare ad A star is born, altra pellicola acclamata dalla critica, vincitrice di un premio Oscar a fronte di otto candidature, che rappresenta il terzo rifacimento del film drammatico È nata una stella del 1937.
Ai titoli già citati si vanno ad aggiungere, volendone annoverare alcuni tra i più eclatanti, in ordine sparso i film legati a saghe del calibro di Indiana Jones (il quinto capitolo è in arrivo nel 2023), di Rocky (con un nuovo spin-off legato al celebre Ivan Drago), di Rambo e di Terminator; i moltissimi film (e serie tv) recenti legati agli universi fantascientifici di Alien, di Predator e di Star Wars; la moltitudine di live action targati Disney che riprendono per filo e per segno i grandi successi del passato e li ripropongono imbottiti di CGI; pellicole come Ocean’s 8 e Ghostbusters: Legacy, che rivisitano il franchise in un’ottica tutta al femminile; la serie cinematografica Animali Fantastici che ci riporta nel mondo ideato dalla Rowling; film come I molti santi del New Jersey ed El Camino, rispettivamente prequel e sequel de I Soprano e di Breaking Bad, serie tv che hanno riscritto la storia del piccolo schermo.
La lista, alla quale presto potrebbe aggiungersi persino un sequel de Il Gladiatore (la sceneggiatura, a detta di Ridley Scott, è stata già completata) sarebbe ben più lunga e noiosa, per questo risulta superfluo continuare in un elenco tra l’altro ben noto ad appassionati e non di quella che amiamo definire la settima arte e che, proprio in quanto arte, è destinata a fare i conti con i cambiamenti e le crisi di ispirazione, quindi a mutare.
Sicuramente l’epoca in cui stiamo vivendo fa i conti con una grande disillusione dettata da un conseguirsi di eventi drammatici e dalla sensazione che, per certi versi, l’umanità stia viaggiando verso un punto di non ritorno. Dunque, nella dilagante ottica nostalgica per cui il presente risulta avvilente e il futuro terrorizzante, il passato rappresenta un porto sicuro nel quale rifugiarsi dolcemente.
Questo influenza notevolmente le nuove ideologie e i processi di produzione artistica, con il mondo del cinema, accompagnato a braccetto da quello della musica, che sembra soffrire di un mancato rinnovamento di idee. Tutto ciò, tra l’altro, si allarga ad altri settori, come quello dell’industria videoludica, la quale inizia a caratterizzarsi di una certa malinconia per i titoli di maggior successo che iniziano a essere rivisitati e rilanciati.
In un periodo in cui l’economica è continuamente messa alla prova con duri colpi come la pandemia e la guerra, è doveroso anche considerare che costruire l’hype intorno a un nuovo progetto è un’operazione impegnativa, complessa, ma soprattutto costosa in quanto implica campagne online, spot televisivi, eventi esclusivi e première.
Non c’è da stupirsi dunque se l’industria cinematografica, come altri settori, decida di affidarsi a quella che, nel lessico del marketing, è chiamata pre-awareness, ovvero la familiarità pregressa del cliente, del tutto in linea con i tempi in cui viviamo: è decisamente più facile convincere il pubblico a vedere il prosieguo di una storia già apprezzata, piuttosto che cercare di indirizzarlo verso qualcosa di nuovo e completamente sconosciuto.
Tale scelta è senza dubbio significativa perché si applica non solo alla continuità della storia, ma anche al senso di tempo passato e di valore affettivo dello spettatore, scatenando un effetto nostalgia nel vecchio pubblico che diventa curiosità del nuovo. A tal proposito è funzionale riportare l’esempio di milioni di appassionati che hanno visto i primi film di Star Wars da adolescenti e che ora vanno al cinema a vedere i nuovi episodi con i propri figli.
Questa strategia cerca infatti di coinvolgere tutte le parti in cui viene tradizionalmente diviso il mercato, ovvero uomini, donne, adulti, adolescenti e bambini, ma rischia inevitabilmente di rinunciare a qualcosa in termini di qualità, distaccandosi dall’idea di arte e avvicinandosi a quella di mero e funzionale intrattenimento.
Facendo un passo indietro, a guidare la sopracitata lista dei film più remunerativi di sempre (dove ricordiamo figurare ben diciassette sequel o remake tra i primi venti film) c’è Avatar, tornato recentemente al cinema per spianare la strada al primo di quattro sequel, che arriverà nei cinema a dicembre di quest’anno.
E proprio il regista di Avatar, James Cameron (colui che ha scritto e diretto Titanic), nome altisonante negli ambienti di Hollywood, mentre già programmava il ritorno sul pianeta Pandora, scandito da un programma di quattro film con cadenza biennale, criticava nel 2018 la mancanza di idee di alcuni filoni cinematografici, in particolare quello dei cinecomics, dichiarando in un’intervista: «Spero davvero che ci stancheremo tutti degli Avengers, molto presto. Non che io non ami quei film. È solo che, insomma ragazzi, ci sono tante altre storie da raccontare oltre alle vicende di questi maschi iper-attrezzati e senza famiglie che fanno cose mortali per due ore distruggendo città nel frattempo.»
Ora, per intenderci, si può essere d’accordo o no con le dichiarazioni di Cameron, ma è innegabile che tali parole suonino contraddittorie per un regista che, dopo tredici anni lontano dalle cineprese, sta per tornare con ben quattro sequel del suo ultimo film, Avatar appunto.
Ciò potrebbe tranquillamente fare da cartina tornasole del processo involutivo che una parte del mondo del cinema ha intrapreso. Ed è doveroso dire una parte del cinema perché la verità è che, accanto a tutti gli altisonanti remake, reboot, sequel, prequel e spin-off, continuano a esistere film estremamente interessanti, spesso nati da progetti indipendenti, alcuni dei quali si potrebbero etichettare come “film d’autore”, termine che pian piano sembra cadere in disuso.
Se è vero che i grandi Studios puntano su sequel e remake perché giocano sul velluto, esistono molte case di produzione e distribuzione che invece sperimentano, provano, tentano altre strade, scommettendo su autori che altrove non avrebbero spazio.
Un esempio lampante è Moonlight, il primo film prodotto e distribuito dalla A24 che ha vinto l’Oscar al Miglior Film a discapito di La La Land, durante una cerimonia, quelle del 2017, che tutti ricordiamo.
Altro esempio da citare è quello della Blumhouse, specializzata nell’horror, ma che nel 2014 ha dato vita Whiplash, film che ha vinto tre Oscar, tra cui quello al miglior attore non protagonista per J.K. Simmons. O ancora la Indian Paintbrush, che sta dietro la produzione degli ultimi cinque film di Wes Anderson (tra cui il pluripremiato Grand Budapest Hotel e il recente The French Dispatch), e la Film Nation dell’avvincente Knives Out e dell’enigmatico Arrival.
Insomma, ancora le idee non si sono esaurite, ci sono eccome, semplicemente gli incassi miliardari si stanno concentrando su pochissimi prodotti anziché venire distribuiti su più titoli.
Bisogna dunque sapersi muovere tra i vari sequel e prequel, tra l’ultimo remake e il prossimo spin-off, per continuare ad apprezzare il cinema in tutta la sua essenza, non sentendosi costretti a vedere l’ultimo lavoro dei Marvel Studios o l’ultimo titolo di Fast and Furious solo per poterne parlare con gli amici.