«Accecarmi», disse lui, ed entrò in casa.
L’affittacamere rimase seduta lì ancora un po’. Non era il tipo di donna che percepisse più violenza in una parola piuttosto che in un’altra; le prendeva tutte per oro colato e non vedeva differenza tra l’una e l’altra. Tuttavia, invece di accecarsi, se fosse stata davvero così infelice, si sarebbe uccisa e si chiese la stessa cosa. Avrebbe semplicemente infilato la testa nel forno, o forse avrebbe buttato giù una dose eccessiva di sonniferi indolori e l’avrebbe fatta finita così. Forse Mr. Motes era soltanto cattivo: in fondo, per quale altro motivo al mondo una persona poteva desiderare di distruggersi la vista? Una donna come lei, che ci vedeva così bene, non avrebbe mai sopportato di essere cieca. Se proprio fosse stata obbligata a esserlo, avrebbe preferito morire. Le venne in mente, d’un tratto, che da morta sarebbe stata anche cieca. Guardò intensamente davanti a sé, affrontando per la prima volta quella realtà. Ricordò la frase «Morte eterna» usata dai predicatori, ma la scacciò subito dalla mente, mantenendo l’espressione immutata come quella del suo gatto. Non era né credente né morbosa, motivo per cui ogni giorno ringraziava la sua buona stella.
A suo avviso, però, una persona con quella fissazione era capace di tutto, e Mr. Motes ce l’aveva, altrimenti non sarebbe stato un predicatore. Avrebbe anche potuto mettersi la calce negli occhi e lei non ne avrebbe dubitato affatto, perché, a voler essere sinceri fino in fondo, quelli erano tutti un po’ fuori di testa. Per quale motivo al mondo una persona sana di mente poteva desiderare di non divertirsi mai più?
Lei, di certo, non ne aveva idea.
Flannery O’Connor, La saggezza nel sangue, pagg. 185-186, Roma, Minimum Fax, 2021.
Credere ciecamente: La saggezza nel sangue di Flannery O’Connor.
“Gesù è morto per TE” (La saggezza nel sangue, minimum fax 2021, p. 183) recita un cartello sull’autostrada dove Hazel Motes sfreccia sulla sua auto color grigio topo. Solo che Hazel Motes si sforza di non guardarlo, si rifiuta intenzionalmente di leggerlo. Quella frase tanto gigantesca che gli sembra di sentirsela urlare nelle orecchie rappresenta tutto quello che Hazel Motes vuole combattere.
Il protagonista del primo romanzo di Flannery O’ Connor, La saggezza nel sangue, è un ragazzo che, terminato il servizio di leva, ritorna a casa, nel profondo Sud degli Stati uniti. Però ha addosso un fardello del quale tenta ossessivamente di liberarsi: un Cristo crocifisso nella sua testa, inchiodato nella sua famiglia da generazioni perché suo padre era un predicatore itinerante, “un vecchio lunatico che girava in macchina per tre contee con Gesù nascosto nella testa come un pungiglione”. Così diventa personaggio grottesco in un mondo grottesco, Don Chisciotte di una religione immaginaria e si mette anche lui a girare in macchina per le contee, ma per fare esattamente il contrario di quanto faceva suo padre, predicare una “Chiesa Senza Cristo” dove “il cieco non vede e lo zoppo non cammina e chi è morto resta morto” (p. 104).
Quando La saggezza nel sangue viene pubblicato, nel 1952, i recensori tacciano il romanzo di assurdità, in quanto portatore di una storia ai limiti del reale, ambientato in un’America del Sud popolata da persone inumane e mostruose, tanto repellenti da non sembrare parte della razza umana. Eppure Flannery O’Connor prende questo personaggio e lo inserisce in un contesto di un Sud protestante che lei conosceva bene, di cui leggeva sui giornali, sostenendo che uno scrittore potesse scrivere solo di quello che poteva osservare. Dunque, uno scrittore del Sud degli Stati Uniti doveva produrre una narrativa che dipingesse quegli scenari grotteschi, doveva farsi profeta “nel vedere in primo piano le cose lontane” (Un ragionevole uso dell’irragionevole, minimum fax, 2019, p. 135). Hazel Motes è ossessionato da una “cristofobia” che diventa nichilismo perché è meglio non credere in nulla che accettare l’esistenza di un Cristo persecutore e punitore dei peccati. Ma quello che si ha nel sangue difficilmente si può lavarlo via e Hazel ha ereditato il “sangue saggio” di suo padre e di suo nonno nel quale Cristo circola incessantemente e, per quanto voglia liberarsene, non fa che incontrarlo. Il suo fanatico nichilismo si scontra con una fede altrettanto estrema alla quale sembra non vi sia scampo, che sembra essere dovunque. Nei luoghi della sua città, negli sguardi dei personaggi bizzarri che la popolano, nelle prostitute, nei vecchi predicatori.
O’Connor spiega che il suo romanzo è interamente incentrato sulla redenzione. Solo che la redenzione, per O’ Connor, talvolta risiede nei gesti più orribili. L’incessante fuga da un Cristo ingombrante, sanguinante e sofferente sulla croce, diventa continuo inciampo nella presenza dello stesso, labirinto oscuro nel quale Cristo diviene suo persecutore. La redenzione non può avvenire senza fiducia, senza affidarsi ciecamente alla fede e Hazel Motes, alla fine del romanzo, cede alla sua. Se il mondo che vede non gli piace, se nelle cose che lo circondano, illuminato dalla luce del sole, non riesce a trovare la propria salvezza, se l’uomo è malato e corrotto, se le azioni umane non solo altro che imbarazzanti tentativi di creare soluzioni consolanti all’incomprensibile mistero della vita, allora Hazel Motes sceglie di non posare più il proprio sguardo su tutto questo. Non vuole più guardare il reale, non vuole più vedere i ridicoli tentativi di salvezza che mettono in atto gli uomini, ma sceglie di guardare da un’altra parte, verso una nera profondità, quella del suo animo: “se gli occhi sono senza fondo contengono di più” (p. 195). E si acceca. Compra della calce viva e crudelmente, dolorosamente, si fa autore della propria redenzione. Riconoscendo la propria natura di peccatore, intraprende un percorso di feroce autopunizione. La cecità diventa la sua salvezza e, come moderno Edipo, si acceca per non vedere più l’orrore del mondo e per potersi perdere nel solo orrore della propria anima. La cecità sarà solo un’anticipazione della morte prossima: esala l’ultimo respiro nell’auto di due poliziotti che lo riportano nel suo alloggio, dopo averlo trovato moribondo “disteso in un canale di scolo accanto a un edificio in costruzione abbandonato” (p. 201).
Hazel Motes esce di scena così, fragile figurina sconfitta in una lotta spietata contro se stesso e contro un Cristo che sembra inghiottirlo in un buio infinito.
Flannery O’Connor nasce a Savannah, in Georgia, negli Stati Uniti del Sud, il 25 marzo 1925. Sin da bambina manifesta un’attitudine per il disegno e per la scrittura. Quando ha 15 anni al padre viene diagnosticato il lupus, malattia che erediterà e che riterrà un luogo più istruttivo di un lungo viaggio. Quando viene a conoscenza della sua malattia si trasferisce con la madre in campagna, in una tenuta dall’esotico nome di “Andalusia”, dove alleva polli e, soprattutto, pavoni. Fervente cattolica in un Sud protestante, dipinge nei suoi romanzi e racconti gli scenari del Sud e i ritratti della gente della sua terra: “La saggezza del sangue” (minimum fax), “Il cielo è dei violenti” (minimum fax), “Un ragionevole uso dell’irragionevole” (minimum fax) e centinaia di racconti. Nella lotta alla malattia, dedicherà la sua vita alla scrittura, viaggiando esclusivamente per tenere conferenze e lezioni all’università e tessendo una fitta rete di rapporti epistolari. Muore a 39 anni, il 3 agosto 1964.