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Dalla Cina, al Mesoamerica, all’Inghilterra: breve storia di come il calcio è divenuto uno sport mondiale

di Roberta Giannì

Quello del calcio è sicuramente lo sport più amato e seguito del mondo. Campetti di erbetta accorciata al punto giusto o semplice tufo, una rete tra due pali o una linea in terra per delimitare l’area del goal, un pallone, e amici disposti a correre e sudare dietro a esso.

Per chi avesse poca familiarità con questo gioco, su un campo da calcio si muovono vari elementi con differenti ruoli. Eduardo Galeano, giornalista, scrittore e romanziere uruguaiano considerato “eminente letterato del calcio mondiale”, nel suo libro Splendori e miserie del gioco del calcio, con l’utilizzo di un lessico simpatico e allo stesso tempo degno, ha ben descritto le principali figure in questo sport: il giocatore (in campo undici totali), colui che “da un lato lo aspettano i cieli della gloria, dall’altro gli abissi della rovina”; un portiere, il solitario, condannato a guardare la partita da lontano ma sempre vigile, pronto a scattare in avanti non appena vede qualcuno avvicinarsi alla sua zona; l’idolo, il cui piede è stato baciato dalla dea del vento, campione sin dalla tenera età ma fatto di umana eternità; l’arbitro, un abominevole tiranno, che col suo fischietto soffia i venti della fatalità del destino, e coi suoi cartellini colorati decreta la condanna[1].

Un gioco con la palla: le antiche testimonianze della Cina e del Mesoamerica

Per anni, gli studiosi si sono dedicati a ricostruire la storia di questo sport. Sono ancora poco chiare le effettive origini del calcio così come lo conosciamo oggi, tuttavia numerose sono le testimonianze, presso numerose popolazioni, di attività ludiche basate sull’utilizzo di una palla. Per questo motivo, nel percorso dalla sua nascita fino al gioco moderno, non utilizzeremo il termine “calcio”, date le caratteristiche principali delle prime forme di questo sport alle volte differenti rispetto a quello odierno. 

Nella Cina dell’imperatore Xeng Ti esisteva un gioco denominato Tsu-Chu. Gli uomini dell’esercito, nel corso del loro addestramento militare, praticavano un’attività che prevedeva l’uso di un oggetto sferico, creato amalgamando sostanze vegetali e tenuto insieme da crini annodati. Il gioco, il cui nome significava letteralmente “palla colpita col piede”, era conosciuto anche con il termine di Cuju, da cu “calciare” e ju “palla” (calciare una palla). Questa particolare attività all’interno delle file dell’esercito cinese divenne più tardi molto popolare anche in Giappone, Thailandia e Corea, menzionata in un manuale militare di epoca Han (siamo tra il III e il II a.C.), tra gli esercizi fisici raccomandati ai soldati[2]. “Lo scopo del gioco era indirizzare la palla colpendola con i piedi in un buco nel terreno, più tardi in una rete sospesa tra due pali di bambù”[3].

Fu il Giappone, circa un millennio più tardi, a far sì che iniziassero a comparire i primi campi con i quattro angoli segnalati da alberi, uno diverso dall’altro: un pino, un ciliegio, un mandorlo e un salice. Il gioco era conosciuto con il nome di Kemari e prevedeva l’utilizzo di un pallone composto da uno strato esterno di pelle e manovrato sia con le mani che con i piedi[4].

La Prof.ssa Mary Miller, docente di storia dell’arte presso l’Università di Yale, ha studiato numerose testimonianze di questo sport. La sua idea è che il concetto di sport di squadra tragga le proprie origini dal Mesoamerica.

Nel territorio centro-meridionale dell’America, in un periodo che va dal 2000 BC (Before Christ) fino al secolo delle conquiste spagnole, fiorì un mosaico di popolazioni, note nella storia per aver creato alcuni tra gli imperi più floridi e sviluppati della storia: gli imperi Maya, Azteco e Inca[5]. Evidenze archeologiche e cronache spagnole del 1500 raccontano di un gioco molto diffuso, soprattutto tra i Maya e gli Aztechi. Il suo nome cambiava tra le diverse popolazioni: per gli Aztechi era ullamaliztli, per i Maya era pok-ta-pok; a cambiare erano anche le regole, a seconda che si giocasse con o senza l’uso di strumenti quali racchette o mazze.

Il monaco francescano Fray Toribio de Bonavente raccontava di come la palla utilizzata nel corso della partita fosse molto dura, e di come gli “indiani continuamente corressero e saltassero” […][6].

I giocatori aztechi partecipavano alle partite utilizzando fianchi e glutei: nella loro versione l’uso di mani e piedi era vietato. La palla era sempre ottenuta attraverso l’amalgama di sostanze vegetali, quali la resina, che, indurendosi, diveniva difficile da colpire, procurando spesso lesioni ai giocatori. Nonostante ciò, obiettivo di questi ultimi era indirizzare la palla verso degli anelli verticali in pietra che sporgevano dai muri degli avversari, aggiudicandosi un punto per ogni volta che riuscivano a centrare l’anello.

I campi da gioco sorgevano solo nelle città più grandi e nei punti di scambio più importanti: la loro costruzione, in genere, avveniva in prossimità dei luoghi sacri. Si trattava di campi lunghi e stretti, con gli anelli sporgenti. Sul terreno di gioco ogni tipo di differenza sociale si annullava: i giocatori erano ragazzi o adulti, fino a un massimo di undici a partita. L’unica differenza necessaria era quella tra vincitori e perdenti: i primi, riconosciuti come i campioni della loro città, in genere si godevano il resto del giorno che, al momento della vittoria, diveniva il giorno a loro dedicato, con feste e banchetti. Per i perdenti la sorte era diversa: erano sacrificati e i loro corpi dati in offerta agli dei.

Quello del sacrificio umano è un tema ricorrente nella cultura delle popolazioni del Mesoamerica. Si trattava di rituali in onore della morte, in cui la vittima offriva la propria vita all’intera comunità e agli dei che la governavano.
Gli studiosi concordano sul fatto che anche nello sport ci fosse una forte valenza rituale e che non si trattasse, dunque, solo di un semplice intrattenimento. Il campo da gioco acquisiva una connotazione sacra, con raffigurazioni sulle pareti che richiamavano gli dei della mitologia, e piatti e ciotole, poi rinvenute dagli archeologi, in cui era presente del cibo a loro offerto[7].

Nelle diverse mitologie americane precolombiane vi è una ricorrente iconografia, molto conosciuta tra le popolazioni del Mesoamerica: quella degli Eroi Gemelli. Nei racconti mitici di queste due figure, si narrava di un gioco a palla tra loro e gli dei dello Xibalba, l’Oltretomba. Questi, disturbati dai gemelli intenti a giocare a palla, li mandarono a chiamare per sfidarli su un loro campo da gioco. Gli dei in realtà speravano che, attirandoli nell’Oltretomba, avrebbero potuto facilmente farli cadere in una delle loro trappole e, dunque, ucciderli. Tuttavia i gemelli riuscirono sempre a cavarsela, annunciando che qualora gli dei non avessero rispettato le regole canoniche del gioco con la palla, avrebbero abbandonato la partita. Si narra che lasciarono vincere gli dei dello Xibalba per ingannarli e salvarsi da morte certa.

Gli Eroi Gemelli

L’arrivo dei conquistadores dall’Europa pose un freno a ogni aspetto della cultura delle popolazioni americane precolombiane, le quali finirono per perdere completamente la loro identità. Tuttavia, le moderne popolazioni che ne hanno conservato l’eredità, ancora danno vita a eventi e celebrazioni in cui offrono dimostrazioni del gioco dei loro antenati.

Dal calcio fiorentino al gioco mondiale

Nell’Europa del Rinascimento, Firenze era la capitale delle attività ludiche e agonistiche. Nel 1410 un poeta anonimo raccontava di una forma di attività sportiva molto popolare in città, espressamente chiamata “gioco del calcio”. I giocatori erano 27, divisi in corridori (attaccanti), sconciatori (centrocampisti), datori innanzi (terzini), datori indietro (difensori). Nel corso di una partita, l’obiettivo era scavalcare l’unico difensore che poteva utilizzare le mani, e correre dritti a segnare un punto nella porta da lui custodita. Si dice che i Medici furono i primi a individuare in questo sport un’ottima valvola di sfogo per il malcontento popolare[8].

La versione moderna del calcio la si deve all’Inghilterra del XIX secolo, dove le scuole britanniche codificarono e formalizzarono in maniera definitiva questo sport dalle mille varianti. Crearono infatti i propri standard di gioco, aprendosi alla possibilità di creare dei veri e propri tornei tra giocatori che conoscevano regole condivise. Nel campo aristocratico di Harrow si giocava 11 contro 11 su di una collina, mentre a Charterhouse si sviluppò la tendenza al dribbling, ossia il possesso palla di un singolo giocatore che cerca di evitare quanti più avversari possibili.
Dopo che al Trinity College di Cambridge venne redatto il primo codice calcistico, nel 1862 nacque a Nottingham il Notts County, la prima società calcistica a partire dalla quale proliferarono tutte le altre.

Dall’Inghilterra, l’ormai definitivo gioco del calcio si espanse in tutto il mondo, partendo dall’Argentina, dove gli inglesi erano impegnati nella costruzione della rete ferroviaria che partiva da Buenos Aires e toccava numerosi centri sulle sponde del Rio della Plata. Questa conobbe il calcio nello stesso periodo dell’Uruguay: nel 1899 le due nazioni giocarono un match a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, e il Buenos Aires Team stracciò il Montevideo Team per 3-0.

Si deve tuttavia a Charles Miller la conversione del paese argentino al calcio, che ne divenne il simbolo. Miller, nativo di San Paolo ma figlio di un residente inglese che lo aveva spedito in Inghilterra per completare gli studi, fece ritorno in Argentina con il pallone sottobraccio, introducendo il gioco tra i suoi coetanei.

Charles Miller

Oggi il calcio è in assoluto il gioco più popolare al mondo. Si stima appassioni 265 milioni di persone: la FIFA, l’ente storico che ancora governa questo sport, solo nel 2021, ha incassato 755,5 milioni di dollari.

Il suo cuore, tuttavia, continua a rimanere sui miliardi di campi che sorgono ovunque nel mondo, dove ogni giorno ragazzi e ragazze di tutte le età rincorrono una palla proprio come i loro antenati, mantenendo viva una tradizione che accomuna tutte le popolazioni sul pianeta. 


[1] E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, 2015.

[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/calcio-la-storia-del-calcio_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/

[3] Nigel B. Crowther, Sport in Ancient Times, Westport, CT, Greenwood Publishing Group, 2007.

[4] https://www.treccani.it/enciclopedia/calcio-la-storia-del-calcio_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/

[5] R. Giannì, I grandi imperi precolombiani e la conquista spagnola. “Clinamen Periodico”, 18, 2021, pp.41-44, ISSN

[6] Ortiz, Melissa, Ancient Ballgames of Mesoamerica, 2009.

[7] Ibid.

[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/calcio-la-storia-del-calcio_%28Enciclopedia-dello-Sport%29/