NUOVA AMERICANA

Faulkner, il mondo in una mappa

a cura di Adele Errico

«Ehi, Cash! » grida lei, la voce aspra, forte, per niente indebolita. «Ehi, Cash!». Lui alza gli occhi al viso sparuto incorniciato dalla finestra nel crepuscolo. E un quadro composito di tutto il tempo da che lui era bambino. Lascia andare la sega e solleva l’asse perché lei la veda, guardando la finestra in cui il viso non si è mosso. Trascinandola, mette un’altra asse in posizione e le inclina entrambe come dovranno stare nella loro giustapposizione finale, gesticolando verso quelle ancora per terra, dando forma con la mano libera, in pantomima, alla cassa finita. Ancora per un momento lei lo guarda dall’alto del quadro composito, senza censura né approvazione. Poi il viso scompare. Lei si ributta giù e gira la testa senza neanche guardare Pa’. Guarda Vardaman; gli occhi, la vita che han-no, che d’un tratto vi si avventa; le due fiamme avvampano per un istante immobile. Poi si spengono come se qualcuno si fosse piegato in avanti e vi avesse soffiato sopra. «Mamma;» dice Dewey Dell «mamma!». China sul letto, le mani appena sollevate, il ventaglio che continua a muoversi come ha fatto per dieci giorni, dà inizio al lamento. La sua voce è forte, giovane, tremula e chiara, estasiata del proprio timbro e del proprio volu-me, il ventaglio che continua a muoversi su e giù facendo bisbigliare l’aria inutile. Poi si butta di traverso sulle ginocchia di Addie Bundren, le si avvinghia con-tro, scuotendola con la forza furiosa dei giovani prima di accasciarsi di colpo su quelle poche ossa marce che Addie Bundren ha lasciato, squassando letto e materasso in un sibilare vibrante di gusci di pannocchia, le braccia aperte, il ventaglio tenuto stretto che ancora batte sulla trapunta con un respiro che si estingue. Da dietro la gamba di Pa’ fa capolino Vardaman, la bocca spalancata e tutto il colore del viso svuotato-sì nella bocca, come se i denti, in qualche modo, se li fosse risucchiati.

William Faulkner, Mentre morivo, pag. 49, Milano, Adelphi, 2000.

Faulkner, il mondo in una mappa

William Faulkner, Mentre morivo
A cura di Mario Materassi Biblioteca Adelphi, 399
2000, 2ª ediz., pp. 231

Nel modo in cui questa madre muore c’è qualcosa che evoca la morte delle eroine tragiche: un ultimo sforzo sovrumano per inalare ancora un soffio di vita. Poi si accascia, come arresa, stremata, sul materasso cigolante, girando la testa, rotta come un pupazzo di pezza. L’ultimo sguardo al figlio più piccolo e la vita va via dai suoi occhi, fiamme che prima avvampavano, ora spente come se qualcuno “vi avesse soffiato sopra”. Gli occhi ardenti, avidi di vita, che fino all’ultimo istante vogliono trattenerla nelle pupille, sono quelli di Addie Bundren, protagonista assente, eppure sempre presente, di Mentre morivo di William Faulkner.

La scrittura di Faulkner è spesso stata considerata dai critici oscura, velata, concettosa e faticosa. Una patina stilistica intricata che sottende i sentimenti e i temi più ancestrali. Il tema centrale di questo romanzo – la morte della madre – tocca le corde più oscure e delicate dell’animo umano, la parte più embrionale, atavica del nostro essere: il rapporto con chi ci dà alla luce. Il brano in questione, tratto da uno dei primi capitoli, vede i figli di Addie Bundren intorno al letto di morte della propria madre, uniti a lei e tra loro come da un filo invisibile, un cordone ombelicale mai reciso. Questo il momento di passaggio. Dalla vita alla morte, dal movimento alla fissità, dalla presenza all’assenza.

In questa pagina Addie Bundren smette di vivere ma, non per questo, cesserà di esistere nei pensieri e nelle giornate dei suoi figli e di Anse, il marito. Diverrà simbolo e oggetto di una missione, quella di riportarla al paese d’origine, Jefferson, in modo tale che lì possa essere sepolta. Inizia, così, il faticoso viaggio dei Bundren su un carretto sgangherato attraverso il Sud selvatico e grigio degli Stati Uniti. Un viaggio che, però, è per ciascuno di loro motivo di espiazione di una colpa, specchio nel quale si riflette una verità. La bara che la contiene, nella quale “ce l’avevano messa alla rovescia così non spiegazzava il vestito”, è stata costruita dal figlio falegname, Cash, il cui nome viene urlato da lei con “voce aspra, forte, per niente indebolita” nella prima riga della pagina scelta. Non è la voce di una persona morente, quella che esce dalla gola di Addie. È una voce potente, che ancora un’ultima volta vuole mostrare ai propri figli la propria forza. Attraverso la finestra della camera da letto, osserva Cash costruire la bara che le sarà inchiodata sulla faccia, come spettatrice della sua morte futura. E Cash – primo attore di uno spettacolo teatrale che ha sua madre, suo padre e i suoi fratelli come spettatori – inchioda e impreca e batte il martello sulle assi, con freddezza e precisione come se non fosse della propria madre la cassa da morto che sta costruendo.

Chissà se, in questa madre, c’è un po’ di Maud Faulkner, la madre di Faulkner. Chissà se mentre scriveva di Addie che giaceva al buio accanto ad Anse – nell’unico monologo affidato a Addie, tra i cinquantanove monologhi dai quali il romanzo è costituito – pensava alla propria madre addormentarsi al buio accanto a Murry Faulkner, suo padre. Magari in una di quelle notti di settembre dopo che William era nato e piangeva disperato a causa delle coliche, giaceva e pregava perché lui si addormentasse, troppo stanca per cullarlo ancora. Chissà se ripensava a sua madre il Faulkner adulto, fuochista nei turni di notte, mentre scriveva il romanzo su di una carriola rovesciata a mo’ di scrivania. Sua madre che si addormentava pregando sarebbe diventata una madre che moriva tacendo, impalata tra le lenzuola sudate con sguardo crudo. Ma quella madre era anche una donna con la faccia da cagna che non ha il cuore di chiudere gli occhi al marito che ha accoltellato: “As I lay dying the woman with the dog’s eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades…”. Mentre morivo la faccia da cagna non ebbe il cuore di chiudermi gli occhi. Sono le parole balbettate nel sangue nero che sgorga dalla gola di un re sgozzato come un animale, agonizzante e implorante sotto gli occhi crudeli da cagna di una donna che ruggiva di gioia nel guardare la vita che volava via dall’uomo che era stato suo marito, tornato vittorioso da una guerra lontana, appagato delle braci di una città devastata dall’inganno di un cavallo di legno. È l’ombra di Agamennone che, nel libro XI dell’Odissea, racconta a Ulisse come è stato ucciso da Clitemnestra e dal suo amante Egisto.

As I lay Dying è, infatti, il titolo originale del romanzo di Faulkner: nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha, nel Mississippi, una famiglia si mette in viaggio verso Jefferson per andare a seppellire la propria madre laddove voleva essere sepolta. Faulkner ambienta in questo luogo immaginario non solo questo romanzo, ma tutta la sua produzione letteraria: L’urlo e il furore, Asalonne, Asalonne! Santuario, Luce d’Agosto. Il “selvaggio ragazzo di campagna”, come amava definirsi, aveva disegnato la mappa di una regione immaginaria perché il mondo esistente non gli era sufficiente. Così ne inventa un altro, attribuendogli coordinate geografiche, storia, genealogie. E in questa regione si susseguono casate, dinastie che nascono e poi si sgretolano, lasciando dietro di sé solo un mucchio di macerie.

I personaggi di Faulkner sorgono come statue e agonizzano come pupazzi rotti, non per destino ma per natura, non per volere superiore ma per un male che hanno nel sangue. Il male, per questi personaggi, non è qualcosa di astratto, di avulso dalla carne, di invisibile e intangibile, ma si sedimenta nelle loro mani, nelle loro bocche. Il male lo fanno e lo dicono e, spesso, ne sono vittime. Quando Faulkner morì, all’età di 65 anni, la gente di Oxford, in Mississippi, si fermò attonita a guardare la fiumana di gente che scorreva dietro la sua bara e capì, pur non avendo letto una riga di quello che il loro concittadino aveva scritto, che qualcuno di importante li aveva lasciati.


William Faulkner

William Faulkner è stato un autore statunitense, Premio Nobel per la letteratura nel 1949.
Tra i suoi romanzi più famosi, ricordiamo L’urlo e il furore (1929), Mentre morivo (1930), Luce d’agosto (1932), Gli invitti (1938) e Assalonne, Assalonne! (1936). Faulkner fu anche uno scrittore prolifico di romanzi brevi: la sua prima raccolta, Queste 13 (1931), comprende alcune delle sue storie più conosciute. Durante gli anni ’30, nel tentativo di guadagnare qualche soldo, Faulkner ebbe l’idea di Santuario, un romanzo che oggi verrebbe definito “pulp” (pubblicato per la prima volta nel 1931). È stato anche un apprezzato autore di romanzi polizieschi. Nei suoi ultimi anni Faulkner si trasferì a Hollywood per lavorare come scenografo (suoi sono i copioni del Grande sonno di Raymond Chandler e di Avere e non avere di Ernest Hemingway). L’ultima parte della sua vita fu purtroppo segnata da un grave problema di alcolismo. Questo non gli impedì tuttavia di presenziare all’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura e di pronunciare uno dei discorsi più significativi mai ascoltati in tale occasione. Faulkner decise di devolvere il proprio premio per la costituzione di un fondo che avesse come scopo quello di aiutare ed incoraggiare nuovi talenti letterari. Morì a sessantaquattro anni, il 16 luglio 1962, ad Oxford, Mississippi.