Approdi Oltre il confine

Floro: la fortuna di un “minore”

di Alberto Spina

Il racconto degli avvenimenti cruciali per la storia del popolo romano ci è giunto tramite alcuni autori i cui nomi, Sallustio, Tito Livio, Tacito, si ergono – riprendendo e parafrasando una celebre espressione oraziana – come monumenti più duraturi del bronzo[1]. In ambito storiografico, però, non sono stati solamente loro ad averci consegnato dei capolavori letterari (e storici, ovviamente), anzi, infiniti sono gli autori che si possono enumerare nella schiera dei cosiddetti minori: uno tra questi è certamente Floro.

Da un dialogo a lui attribuito, il Vergilius orator an poeta, desumiamo le notizie biografiche sul nostro: di origine africana, puer partecipò ai Ludi Capitolini, una gara poetica che si teneva a Roma. In quest’occasione venne sconfitto a causa dell’avversione dell’imperatore Domiziano ad assegnare la vittoria a un nativo africano; compì poi numerosi viaggi per stabilirsi a Tarragona dove esercitò per cinque anni la professione di maestro; tornò infine a Roma dove ebbe rapporti con l’imperatore Adriano. Restano sconosciuti la data e il luogo della morte.

Sulla figura e l’opera di Floro pesano una serie di problematiche che hanno variamente messo in difficoltà gli studiosi[2]. Sotto il nome di Florus convergono diverse opere e cioè l’Epitome, il dialogo Vergilius orator an poeta, alcuni componimenti poetici nell’Anthologia Latina e pochi frammenti nella corrispondenza epistolare con l’imperatore Adriano; ma, sebbene la critica si sia variamente dibattuta a riguardo, si è parteggiato ora per una sorta di epochè (sospensione del giudizio) ora per un’identificazione parziale tra lo storico e il retore, oggi si tende a unificare i tre diversi scrittori.  

Chiarita, se così si può dire, la questione riguardante la persona, è necessario comprendere quale sia il nome completo – i tria nomina – di Floro. I critici ancora una volta sono divisi, soprattutto a causa delle divergenze della tradizione dei codici, ma per la maggior parte tendono ad accettare Lucius Ann(a)eus Florus. Dal punto di vista cronologico – al di là di alcune incongruenze e di alcuni anacronismi nella sua opera storica – gli studiosi hanno preferito la collocazione tra il 70/74 d.C. (come data di nascita dell’autore) e gli anni di potere di Adriano. Anche il titolo dell’opera storica di Floro è stato argomento di dibattito per la critica a causa della discordanza tra i manoscritti: la maggior parte dei testimoni tramanda Epitoma de Tito Livio, o varianti simili, costringendo gli studiosi ad accettare questa come soluzione “definitiva”, sebbene la dipendenza da Livio sia minima e poco rilevante.

Ma perché è importante conoscere Floro? Cos’è che lo rende così “accattivante”?

Una serie di motivazioni contribuisce a innalzare Floro a una dignità più grande di quella che la storiografia e la critica letteraria gli hanno attribuito.
La narrazione storica, soprattutto quando di carattere compilativo o annalistico, può risultare difficilmente adatta a una lettura scorrevole: l’elencazione seriale di nomi, di date, di luoghi, se non accompagnata dalla piacevolezza della scrittura, risulta meramente utile per una lettura intellettualmente impegnata o per una ricerca scientifica. Floro, sicuramente in linea con le correnti letterarie del secolo in cui visse e operò, riuscì a eliminare i confini apparentemente invalicabili tra la storiografia e la retorica, raccontando le gesta di Roma e avendo come preciso scopo la celebrazione del presente, o meglio del valore extratemporale della storia romana[3].

Nella splendida introduzione all’Epitome, immediatamente ci è consegnata un’immagine efficace e molto suggestiva, mutuata certamente da Seneca il Vecchio:

Se qualcuno dunque immaginasse il popolo romano come un solo uomo ed esaminasse tutta la sua vita, come sia iniziata e come sia cresciuta, come sia giunta, per così dire, nel fiore della giovinezza, come in seguito sia quasi invecchiata, scoprirebbe quattro stadi del suo sviluppo[4]. […]

Proprio come un essere umano, il popolo romano conosce diverse fasi della vita: ha una sua infantia (il periodo monarchico), una sua adulescentia (l’età repubblicana fino alla completa conquista dell’Italia), una iuventus (l’età repubblicana con la conquista del mondo fino al principato augusteo) e infine una senectus (l’età imperiale da Augusto fino a Traiano). E Floro, umanizzando gli stadi evolutivi della storia dell’impero romano, tratta questo popolo con lo stesso rispetto e la stessa dignità che si devono a un uomo. Ma, in fondo, che cosa è la storia se non l’insieme di tante storie di tanti uomini?

In nuce nel proemio dell’Epitome intravediamo, dunque, ciò che sarà proprio della scrittura di Floro per tutta quanta la sua opera: un’attenzione particolare nel focalizzarsi su un determinato evento storico e allo stesso tempo una scrittura vivace, dinamica, brillante, capace cioè di trasmettere in maniera del tutto immediata il messaggio dello storico. Floro – si fas est[5] – è un nuovo Lucrezio: come il poeta epicureo, infatti, il nostro è quasi un precettore che si propone di trattare una materia impoetica, quale la storia, permeandola di un afflato piacevolmente retorico; e lo fa cercando di dare musicalità al suo testo, tramite l’uso sapiente delle clausole metriche e, naturalmente, delle figure stilistiche sia di ordine che di suono, oltre che di un colorito uso della lingua.

Questo approccio così fortemente retorico e così “poco storiografico” ha fatto guadagnare al nostro – soprattutto in età moderna – le critiche di una parte degli studiosi, che arrivarono a definirlo, in maniera dispregiativa, “piuttosto un retore”[6]. È pur vero, però, che uno tra i massimi poeti della letteratura italiana, nonché un fine erudito quale Leopardi ha ammirato grandemente l’opera e lo stile di Floro, dedicandogli notevole spazio nel suo Zibaldone; afferma infatti: “Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell’invenzione, nell’immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, novità, posatezza ed ancora castigatezza, insomma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de’ nostri cinquecentisti. E quella stessa dose di pregi, senza i quali però non ci può esser buona né vera prosa, basterebbe per fare ammirare uno scrittore de’ nostri tempi e farlo giudicare sommo ed unico. Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia, varietà ecc. forma de’ periodi e loro disposizione e connessione ecc…”[7].

Questo autorevole giudizio rappresenta certamente il modo migliore per concludere, riassumendo e quasi suggellando le finalità di questo contributo, nato per dischiudere nei cuori e nelle menti dei lettori una piccola finestra sulla vita e sull’opera di un autore a molti sicuramente ignoto.


[1] “aere perennius”, Hor. Odi, III 30.

[2] Le ipotesi e le relative conclusioni sulle diverse questioni che riguardano Floro sono magistralmente analizzate nelle seguenti introduzioni di tre diverse edizioni dell’Epitome: V. PATERCOLO e A. FLORO, Le storie; Epitome e frammenti, a cura di L. Agnes e J. Giacone Deangeli, Torino, Utet, 1969; A. FLORO, Epitome di Storia Romana, a cura di E. Salomone Gaggero, Milano, Rusconi, 1981; A. FLORO, Storia di Roma, La prima e la seconda età, a cura di C. Facchini Tosi, Bologna, Pàtron editore, 1998.

[3] A. GARZETTI, Floro e l’età adrianea, Athenaeum, Pavia, p. 151.

[4] A. FLORO, Epitome di Storia Romana, a cura di E. Salomone Gaggero, Milano, Rusconi, 1981, pp. 71-72

[5] “se è lecito”, CAT., Carmina, LI, v. 2.

[6] G. BIZOS, Flori Historici Vel Potius Rhetoris de Vero Nomine, Aetate Qua Vixerit Et Scriptis, Lutetiae Parisiorum, 1876.

[7] G. LEOPARDI, Zibaldone, pp. 526-527 (ed. a cura di F. Flora, Milano, 1938, tomo I, p. 411).