Approdi

Gli Acta Alexandrinorum: martiri alessandrini e filogiudaismo imperiale

di Pierluigi Finolezzi

La sconfitta di Cleopatra e Marco Antonio del 31 a.C. ad Azio spalancò le porte dell’Egitto alla conquista romana che si concluse con successo un solo anno dopo la battaglia consumatasi davanti alle coste della Grecia. Il nuovo padrone di Roma, Ottaviano, decise di gestire la questione egiziana con un drastico cambiamento di quella che era stata la realpolitik romana nella Valle del Nilo: laddove i magistrati tardo-repubblicani avevano preferito tenere in piedi uno Stato fantoccio logorato dagli scontri tra fazioni ed esautorato dal protettorato romano, egli aveva disposto un’annessione incondizionata seppur nella definizione di uno statuto speciale che rese la difficile e ricchissima provincia d’Egitto un suo dominio personale, governato per suo tramite da un prefetto di rango equestre.

La regina Cleopatra

Il cambio di potere non fu percepito negativamente dalla popolazione nilotica. Se Ottaviano rifiutò di assumere il titolo di faraone al momento della conquista, non dello stesso avviso furono gli abitanti dell’Egitto: i nativi Egizi consideravano Ottaviano il successore di Cleopatra e Cesarione e quindi un faraone, meritevole degli onori, degli attribuiti e dei titoli tipici dei precedenti sovrani, mediatori tra l’umanità e le divinità tradizionali; i Greci d’Egitto mantennero la loro posizione negli uffici amministrativi, seppur si trovarono sempre più spesso affiancati da funzionari romani e a perdere i privilegi dinastici riservati loro dai vecchi padroni greco-macedoni.

Con queste premesse sembrerebbe che l’Egitto romano avesse raggiunto già in epoca augustea un nuovo equilibrio politico consolidatosi nel breve periodo in una pacificazione sociale su vasta scala, in grado di impedire ogni forma di dissenso e di disordine. A smentire una simile conclusione vi è, in realtà, prima di tutto la vicenda del primo prefetto d’Egitto Cornelio Gallo che per la sua eccessiva indipendenza fu accusato di congiurare contro il principe e condannato all’esilio e alla confisca dei beni personali. Che l’ambiente egizio, e soprattutto quello alessandrino, fosse corrotto fu chiaro ai Romani per tutto il I secolo quando gli imperatori si ritrovarono costretti a risolvere delle controversie di natura politica, sociale, culturale, giuridica ed etnica. A tenere banco fu soprattutto la rivalità tra gli abitanti di Alessandria, capeggiati dalle magistrature locali, e la comunità ebraica che popolava alcuni quartieri della vecchia capitale tolemaica.

La tensione tra le due fazioni è documentata da una serie di verbali romanzati che riportano processi ed esecuzioni sommarie di nobili alessandrini da parte degli imperatori romani. Tali documenti conosciuti come Acta Alexandrinorum si sono conservati prevalentemente attraverso dei papiri frammentari risalenti ad un arco temporale che va dal I al III secolo d.C. Le vicende dei protagonisti di una delle due parti, gli alessandrini, sono state paragonate dalla critica ai martirologi cristiani a tal punto che si può parlare di loro come di “martiri alessandrini” e degli Acta come “Atti dei martiri alessandrini” o “Atti dei martiri pagani”.

I frammenti papiracei, provenienti da diversi luoghi come Oxyrinchus, Hermopolis Magna, Panopolis, Karanis e Fayyum, sono stati raccolti ed editi per la prima volta da Musurillo[1] nel 1958-1961 e in un’edizione più recente del 2017 da Vega Navarrete[2]. Dal punto di vista stilistico i testi si contraddistinguono per la loro vis polemica, tipica degli scrittori ellenistici ed alessandrini, tra i quali è possibile individuare i possibili autori, i cui nomi ad oggi rimangono comunque sconosciuti. Dal punto di vista strutturale, invece, gli Acta si presentano in una maniera molto regolare, in forma dialogica e quindi tipicamente forense: i magistrati alessandrini sono ricevuti in udienza dagli imperatori dinanzi ai quali si difendono dalle accuse mossegli contro e dal filogiudaismo dei signori di Roma.

L’antisemitismo palesato dagli alessandrini si controbilancia e si oppone con la protezione che il potere centrale romano riserva alle comunità giudaiche sparse per l’impero e presenti anche ad Alessandria: non sorprende che al termine dei processi la reazione imperiale è quasi sempre violenta e si esplica nelle sentenze di condanna a morte dei magistrati che da difensori della loro patria diventano vittime innocenti di un potere straniero e intransigente.

Chi ha studiato gli Acta si è a lungo interrogato su quali fossero i loro scopi e le loro finalità: partendo dal loro anonimato Musurillo ritiene che si possa trattare di una letteratura segreta, prodotta dall’élite alessandrina per delle recitazioni private nei circoli vicini al ginnasio di Alessandria[3]; Harker considera gli atti come il prodotto di una letteratura d’intrattenimento che dava voce ad uno spettro sociale molto ampio nelle comunità greche d’Oriente e per questo tollerata dal regime imperiale[4]; Rodriguez definisce gli Acta come dei piccoli pamplet derivanti da un nucleo originario individuato nel romanzo del processo a Isidoro avvenuto sotto il principato di Claudio e già circolante nel I secolo d.C.[5].

Isidoro è il nome di uno tre magistrati alessandrini più celebri processati sotto i Giulio-Claudii insieme a Teone e Lampone. La sentenza contro Isidoro e Lampone, ginnasiarchi di Alessandria, fu emessa nell’anno 41 o 53 d.C. dall’imperatore Claudio che li giudicò rei per aver avuto un ruolo attivo negli scontri tra greco-egizi e giudei. Nello specifico Isidoro accusa il re di Giudea Agrippa di aver fomentato la comunità ebraica di Alessandria contro quella greca e l’imperatore Claudio di essere un tiranno dalla condotta eccessivamente filogiudaica.

Le vicende narrate negli Acta non sono riconducibili alla fiction, ma si fondano su un contesto storico ben definito di cui ci danno testimonianza anche auctores di rilievo come Filone di Alessandria e Giuseppe Flavio che furono rispettivamente partecipe e spettatore degli eventi. Il peso dato dalle fonti storico-letterarie agli scontri tra Ebrei e Alessandrini è tale da far sembrare che l’intero mondo romano stia per precipitare in un rovinoso conflitto mondiale capace di sconvolgere e deteriorare lo status quo vigente (Phil. Legat. 31). A tal proposito si deve, però, precisare che sia Filone sia Giuseppe non sono fonti imparziali, dal momento che entrambi appartengono alla comunità giudaica e forse hanno accentuato di proposito la drammaticità degli eventi per colpevolizzare dell’accaduto gli alessandrini e sollevare da ogni responsabilità gli ebrei; di contro, bisogna anche evidenziare quanto la storiografia critica abbia dato – forse erroneamente – poca rilevanza a questi eventi che probabilmente hanno avuto una portata storica maggiore di quella che ancora oggi si conosce.

Come testimoniato da Filone nell’In Flaccum e nella Legatio ad Gaium nell’anno 39 Caligola convoca ebrei e alessandrini a Roma per comprendere le ragioni degli scontri. La difesa dei primi è affidata proprio a Filone, mentre quella dei secondi a Isidoro e Apione. Di una convocazione di Isidoro al cospetto di Caligola parlano anche alcuni frammenti papiracei degli Acta che tuttavia non ci danno notizie sugli esiti del processo. Nella sua arringa difensiva Filone accusa il prefetto d’Egitto Flacco di essersi alleato con i greco-egizi e di aver concordato con Isidoro e Lampone una persecuzione della comunità giudaica. Nessun cenno viene fatto sulle cause degli scontri che, tuttavia, possono essere ricostruite e ricondotte a cause economiche (la ricchezza degli ebrei d’Egitto che detenevano il monopolio degli affari di Alessandria); cause politiche (da una parte l’eliminazione della boulè e il divieto di aggregazione politica per i greci all’indomani della conquista romana e dall’altra i privilegi accordati agli Ebrei da Cesare e Augusto); cause religiose (l’astio ebraico per il teriomorfismo egizio e quello egizio per il monoteismo giudaico); cause contingenti al giudaismo internazionale (la richiesta di Caligola di innalzare una sua statua di culto nel tempio di Gerusalemme); cause civiche (la richiesta della cittadinanza alessandrina da parte degli Ebrei).

Seppur molte di queste cause siano riconducibili a dei pregiudizi contemporanei, non si può escludere che in esse vi sia un fondo di verità: Filone sostiene che gli ebrei hanno dei diritti comuni con tutti gli abitanti delle città della diaspora e possono partecipare alla vita pubblica cittadina a patto di rispettare la legge di Mosè. Nella Contra Apionem Giuseppe Flavio riporta una domanda di Apione a Caligola (II, 65): perché, pur essendo cittadini, gli ebrei non adorano gli stessi dei degli alessandrini? La xenofobia dei circoli sacerdotali egizi è un dato di fatto, attestato sin dalla dominazione persiana e, se volessimo inglobare nel discorso i libri biblici della Genesi e dell’Esodo, retrodatabile almeno all’epoca del faraone Ramesse II: gli ebrei sono visti prevalentemente come degli stranieri, associati allegoricamente a Tifone, epitome del male e manifestazione divina dell’invasore, dello straniero, dell’impuro, del nemico per eccellenza di Iside.

Tornando alla In Flaccum, ivi è possibile rinvenire una descrizione accurata delle persecuzioni che il prefetto d’Egitto – Flacco per l’appunto – operò contro i giudei. Per Filone, Flacco era inerme dal momento che non solo aveva deciso di chiudere le sinagoghe e di privare i membri della comunità giudaica di tutti i diritti civili, ma aveva anche assecondato le azioni degli alessandrini che si erano spinti a saccheggiare le proprietà giudaiche, a trucidare e a torturare uomini e donne sull’agorà, a vendere cittadini liberi come schiavi e ad espellere gli ebrei dalla città per relegarli nel quartiere del Delta, in quello che – a buon ragione – può essere definito il primo ghetto della storia. Secondo il filosofo il praefectus Aegypti aveva il potere di fermare gli eccedi, ma decise di non agire semplicemente perché gli alessandrini avevano ottenuto la sua complicità con l’innalzamento di statue all’imperatore Caligola. Dinanzi a queste accuse Flacco si giustificò dichiarando che la sua azione persecutoria fu determinata dalla detenzione di armi illegali da parte dei giudei. I motivi presentati dal prefetto dinanzi all’imperatore non furono a quanto pare sufficienti a Caligola che alla fine sentenziò la destituzione e l’esilio del governatore.

Questo intervento diretto del princeps non fu comunque sufficiente per placare gli animi, dal momento che altre delegazioni, sempre guidate da Filone e Isidoro, si susseguirono a Roma nei mesi immediatamente successivi. Il rischio di un vero e proprio conflitto etnico nell’impero romano era ancora possibile alla morte di Caligola e fu una delle tante grane sulle quali dovette intervenire il successore. Sin da subito Claudio si dimostrò risoluto a risolvere con fermezza e decisione le tensioni tra le due comunità, emanando due editti (Ios. Flav. Ant. 19) e scrivendo una lettera agli alessandrini, conservatasi su un papiro, trascritto postumo e rinvenuto nell’archivio dell’esattore delle tasse Nemesion nel Fayyum (CPJ II, 153).

Lettera dell’imperatore Claudio agli Alessandrini, CPJ II, 153

In sintesi, Claudio si esprime iratamente imponendo ad Alessandrini e ad Ebrei di interrompere le ostilità e intimando alla comunità ebraica di cessare immediatamente le azioni di ritorsione seguite alla morte di Caligola. Dietro le volontà del nuovo imperatore si cela in realtà un drastico cambio di politica rispetto a quella del suo predecessore che, pur avendo punito il prefetto Flacco, non aveva mai nascosto la sua simpatia per gli alessandrini e l’avversione per le facinorose comunità giudaiche della diaspora. Dal canto suo Claudio dovette, infatti, farsi garante di una politica più tollerante verso gli Ebrei per contraccambiare il sostegno che il re di Giudea Agrippa gli aveva fornito al momento dell’ascesa al trono. Dinanzi all’insistenza del sovrano giudeo l’imperatore riconobbe nuovamente i diritti agli Ebrei di Alessandria e diede rassicurazioni a tutte le comunità della diaspora, dichiarando di voler seguire la strada già precedentemente tracciata da Cesare e da Augusto (Ios. Flav. Ant. 19)[6].

Tuttavia, nella lettera rivolta agli alessandrini (CPJ II, 153) i toni appaiono nuovamente avversi agli ebrei, rei di aver risvegliato nel mondo romano la peste delle persecuzioni etniche che, nelle parole di Claudio, Roma non avrebbe più tollerato. Negli editti riportati da Giuseppe Flavio Claudio appare conciliante e aperto verso gli ebrei; nella lettera alle intimidazioni di cessare le ostilità segue una diretta accusa agli ebrei marcati come “piaga del mondo”[7].

Al confronto delle fonti, il papiro sembrerebbe essere più attendibile del passo di Giuseppe Flavio che, essendo un ebreo al servizio dei Cesari, avrebbe potuto distorcere la storia per motivi religiosi e apologetici. Non si può, però, escludere che nel corso del suo principato Claudio non abbia potuto mutare il suo pensiero sugli ebrei, passando da un’iniziale intolleranza, in linea con il predecessore, ad una maggiore tolleranza, così come attestata da Giuseppe Flavio che a posteriori giudicò Claudio un imperatore filogiudaico. A far propendere verso questa interpretazione sono ancora gli Acta Alexandrinorum, nello specifico gli Acta Isidori. Gli “Atti di Isidoro” si sono conservati in frammenti papiracei nelle vesti di verbali giudiziari ricopiati in maniera molto più ordinata rispetto al papiro di Nemesion. La cura nella loro redazione ha fatto pensare che essi fossero destinati alla lettura o ad una fruizione colta e letteraria nei circoli culturali dell’Oriente ellenistico-romano.

In queste pagine si è visto come il ginnasiarca Isidoro sia stato il capo delegazione di quasi tutte le ambascerie alessandrine a Roma al cospetto dell’imperatore Caligola. E in tale veste si presenta ancora dinanzi a Claudio che, però, lo accusa di essere stato insieme a Lampone il responsabile della guerra civile contro gli ebrei. Tra le accuse mosse dall’imperatore ai ginnasiarchi vi sono quelle di aver provocato la morte del prefetto d’Egitto Macrone, succeduto tra il 38 e il 39 al destituito Flacco. Il processo contro gli alessandrini si svolge in due giorni (30 aprile e 1° maggio): nel primo giorno Isidoro richiede un’istruttoria delle accuse mossegli contro; nel secondo sono pronunciate prima l’arringa finale e in seguito la sentenza di condanna. Il dialogo tra Claudio e Isidoro, contenuto nel P.Cairo inv. 10448 = APM IV A Col. III = CPJ II 156d e riconducibile a questo processo, è stato utilizzato come prova per l’accostamento degli Acta Alexandrinorum alla fiction[8]: i toni di Isidoro, infatti, appaiono molto offensivi e derisori verso l’imperatore che a sua volta addita il ginnasiarca come figlio di una prostituta; a questa accusa ne segue una simile mossa questa volta dall’alessandrino che diffama Cesare additandolo come figlio di Salomè e ricordando i comportamenti poco decorosi tenuti dalla madre del principe Antonia durante i suoi soggiorni in Oriente; per ultima l’accusa di filogiudaismo rivolta a Claudio e ai suoi predecessori.

Frammento papiraceo recante il dialogo tra Claudio e il ginnasiarca Isidoro durante il processo, P.Cairo inv. 10448.

Che ci possa essere stata della verità su questo processo e su questi toni tenuti dai due interlocutori sembrerebbero dircelo anche dei passi di Svetonio[9]. Lo storico ricorda l’episodio di un graeculus che in un processo aveva osato dare del vecchio e del pazzo all’imperatore dopo che questi lo aveva così additato (Cl. 15), proprio come in un frammento degli Acta dove Isidoro si difende dichiarando di non poter essere condannato perché vecchio e autorevole, forse dopo che l’imperatore lo aveva preso in giro per la sua anziana età. Nello stesso passo svetoniano di Cl. 15 si legge ancora di un diverbio inter advocatos per la cittadinanza greca o romana dell’imputato, a tal punto che Claudio non sapeva se fargli indossare la toga o il pallio al momento dell’esecuzione, costringendolo più volte a cambiare veste.

All’udienza del 1° maggio, riportata in più papiri (TM 58935; LDAB 30; HGV 58935; Papyri.info 58935; MP3 2219) partecipò anche un re di Giudea chiamato Agrippa. Questa presenza consentirebbe di datare la sentenza contro Isidoro e Lampone tra il 41 e il 44 d.C. (nel caso si trattasse di Erode Agrippa I) o tra il 53 e il 54 d.C. (nel caso si trattasse di Erode Agrippa II). Al 41 d.C. risale l’editto di tolleranza ricordato da Giuseppe Flavio[10], ma anche la lettera agli alessandrini (CPJ II, 153) che reca la data del 10 novembre del 41 d.C. L’Agrippa che avrebbe sostenuto Claudio al momento dell’ascesa non può che essere Erode Agrippa I (39-44 d.C.) per i cui meriti, stando a Giuseppe Flavio, Claudio riconcesse i diritti agli Ebrei, ritenuti però alla stessa altezza cronologica “piaga del mondo” (CPJ II, 153).

A lungo si è datato il processo a Isidoro e Lampone al 41 d.C., quindi al cospetto di Erode Agrippa I, ma il comportamento di Claudio in quel periodo non era ancora ben definito dal momento che non avrebbe potuto condannare i ginnasiarchi per compiacere gli ebrei e il loro re e dopo pochi mesi scrivere una lettera agli alessandrini nella quale smentiva una simile presa di posizione; più probabile appare, pertanto, postdatare il processo al 53 d.C. dopo i tentativi di mediazione degli editti e della lettera. In questo caso il processo sarebbe avvenuto al cospetto del re Erode Agrippa II (53 d.C. -?) che nello stesso anno si trovava a Roma per risolvere dinanzi all’imperatore delle dispute sorte tra gli ebrei e i samaritani (Ios. Flav. Ant. 20, 118 ss.).

La datazione al 53 faciliterebbe, inoltre, di comprendere un cambiamento della condotta politica di Claudio in merito alla questione ebraico-alessandrina: nei primi anni di principato l’imperatore manifestò maggiore liberalità con il tentativo di giungere quanto più rapidamente possibile ad una risoluzione diplomatica e pacifica; negli anni finali si sbilanciò a favore delle comunità ebraiche, compiacendo il re giudeo Agrippa II e dando un duro colpo alla complicata e sediziosa nobiltà alessandrina. Al di là di quelle che possono essere le ipotesi, l’unica certezza intangibile riguarda la sorte di Isidoro che al termine del processo del 1° maggio fu condannato a morte, diventando, tuttavia, un esempio per i ginnasiarchi successivi che iniziarono a considerarlo il campione di coloro che non avevano paura di dire la verità dinanzi all’autorità e all’arroganza di Roma.

Il successo ebraico, sostenuto e favorito da Claudio, non dovette comunque essere tanto schiacciante se ancora sotto Nerone un altro ginnasiarca alessandrino di nome Isidoro il Cinico, forse imparentato con il nostro, fu assolto dall’imperatore per disprezzo dell’opinione pubblica e per timore di eccitare gli animi (Suet. Ner. 39), quegli stessi animi che avevano martirizzato ed eroicizzato l’Isidoro condannato nel 53. Una recente scoperta epigrafica[11] rinvenuta a Ko mel Dikka, nel sobborgo di Alessandria d’Egitto, da un’equipe universitaria polacca ha fatto, invece, chiarezza su quella che doveva essere la familia del protagonista degli Acta Isidori: il dedicatario Tiberio Claudio Isidoro è figlio di un omonimo Tiberio Claudio Isidoro noto soprattutto per aver ricoperto la carica di ginnasiarca[12]. Questo dato ha condotto il Mélèze Modrzewski[13] a concludere che questo Tiberio Claudio Isidoro padre è “le gymnasïarque alexandrine Isidôros” messo a morte da Claudio. L’epigrafe possiede poi un altro elemento rilevante, l’enumerazione di una serie di cariche che Isidoro figlio aveva ricoperto nel corso del suo cursus honorum (ginnasiarca, hypomnematografo, tribunus militum, epistratego, arabarca) che non era stato per niente ostacolato o interrotto dalla condanna a morte del padre. L’epigrafe di Ko mel Dikka è stata datata dagli studiosi all’età flavia ed è ampiamente considerata come una prova del capovolgimento di fortuna che coinvolse le comunità ebraiche dopo i decenni di sostegno ricevuto dai Giulio-Claudii: negli anni di Tiberio Claudio Isidoro figlio la compagine greco-alessandrina si era imposta su quella ebraica grazie soprattutto ai successi che Vespasiano e suo figlio Tito avevano ottenuto in Giudea e alla pia devozione che la gens Flavia aveva rivolto proprio verso le divinità egizie.


[1] H. MUSURILLO, The Acts of the Pagan Martyr, Oxford, 1958.

[2] H. VEGA NAVARRETE, Die Acta Alexandrinorum im Lichte neuerer und neuester Papyrusfunde [Papyrologixa Coloniensia XL], Koln, 2017.

[3] H. MUSURILLO, The Acts of the Pagan Martyr, cit.

[4] H. VEGA NAVARRETE, Die Acta Alexandrinorum im Lichte neuerer und neuester Papyrusfunde, cit.

[5] A. HARKER, Loyalty and Dissidence in Roman Egypt. The Case of the Acta Alexandrinorum, Cambridge 2008.

[6] L. LEVI, La lettera di Claudio e gli Ebrei di Alessandria in La Rassegna Mensile di Israel, serie 2, vol. 5, n. 7/8 (nov.-dic.), 1930,pp. 382-391.

[7] M. PUCCI – M. PUCCI BEN ZEEV, Jewish Rights in the Roman World: The Greek and Roman, Mohr Siebeck, 1998, pp. 520 ss.

[8] A. HARKER, Loyalty and Dissidence in Roman Egypt. The Case of the Acta Alexandrinorum, cit..

[9] Svetonio amava spulciare le fonti ed è possibile che abbia sfogliato anche i testi degli Acta per redigere la Vita Claudii.

[10] L. LEVI, La lettera di Claudio e gli Ebrei di Alessandria in La Rassegna Mensile di Israel, cit.

[11] SEG 50.1563 – Iscrizione da Ko mel Dikka.

[12] A. MAGNANI, Filone, Lampone e le letture di Caligola in APapyrol, XVI-XVII (2004), pp. 75-80.

[13] J. MÉLÈZE MODRZEJEWSKI, Le procès d’Isidôros: droit pénal et affrontements idéologiques entre Rome et Alexandrie sous l’empereur Claude, Praktika tes Akadêmias Athênôn 61 (1986) 245-275.