Oltre il confine

Grazia Deledda

L’unica scrittrice italiana Premio Nobel per la Letteratura

di Mara Torricelli

Così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo” ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie.


(Discorso in occasione della consegna del Premio Nobel)

Ho letto Grazia Deledda molti anni fa, trascinata da una febbre giovanile di conoscere vite, storie, voci…che mi faceva divorare libri su libri. Così come la scrittrice, trasgredendo a pregiudizi atavici, aveva letto, di nascosto, nella biblioteca dello zio, “divorò libri su libri… con avidità e disordine”.

Grazia Deledda

Nelle pagine della Deledda vedevo rappresentati i moti dell’anima nascosti, spesso così sconosciuti, a cui non sapevo ancora assegnare un nome preciso, e la complessità di certe vite che mi facevano ardere di curiosità e stupore. Da adulta, rileggendo con la consapevolezza della conoscenza e della storia, ho trovato in lei ancora di più, qualcosa di unico: in quello che certi critici e studiosi hanno criticamente classificato come una difficoltà di inserimento preciso nelle correnti della letteratura italiana (“….è assolutamente estranea alla letteratura italiana…il suo è uno stile che non si riattacca a nessuno e non si contrappone a nessuno” A. Momigliano) io ho visto, invece, la pluralità degli aspetti con cui il Novecento italiano si affaccia alla storia, in quei primi decenni del secolo.

Ci sono, infatti, in Grazia Deledda, echi di un romanticismo mai spento, ricerca di crudezza e verità tipiche del più classico verismo, e il trascolorare dello stesso verso i colori più velati del decadentismo. Ho trovato in lei la coscienza della funzione delle emozioni e delle percezioni che compongono la forma artistica e di cui furono portavoce, in quei decenni, gli artisti dell’arte moderna, soprattutto i pittori della rivoluzione del colore come macchia espressiva, da Gauguin a Matisse.

Ma ho ritrovato anche il romanticismo, mai superato del tutto nelle coscienze degli scrittori italiani, che lo hanno fatto loro come parte fisica del proprio animo. L’ho trovato nei suoi personaggi raccontati fin nelle pieghe più intime delle emozioni, dove il sentimento diventa passione primitiva, e poi nelle descrizioni della Natura della Sardegna, selvaggia, metaforica, e spesso istintiva e primordiale (come certe pagine di Rousseau).

l’orto, nero e tacito, odorava di pomidoro e di erbe aromatiche: e il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese…”[1]

In altre descrizioni, rivive, invece, quello che a scuola si insegna col nome di “teoria del vago e l’indefinito” leopardiano, e vale a dire la scelta accurata delle parole come: “antico, infinito, lontano, velato (faceva un gran caldo e la valle era già tutta gialla sotto un cielo d’un azzurro velato)[2], sfuocato, diafano, (“per la prima volta gli appariva chiaro, come la roccia là sui monti attraverso l’aria diafana, l’errore della sua penitenza…”[3]), fragile…” che, diceva il poeta di Recanati “sono romantiche, romanticissime”[4].
Ma ho trovato nelle sue pagine anche sentimenti vivi, forti, istintivi che fanno avvertire la Sardegna come una terra antica, quasi mitica. Una terra in cui le onde lunghe della storia hanno portato profonde stratificazioni etniche e culturali. Una terra misteriosa, in cui i sentimenti e le emozioni possono essere solo forti, e in cui le origini si perdono con la leggenda.

La Sardegna descritta in quelle pagine, mi ricorda le suggestioni di un altro autore sardo, Sergio Atzeni, scomparso nel 1995, che nel libro Passavamo sulla terra leggeri[5], si trasforma in un antico aedo e racconta una miriade di piccole storie intrecciate tra loro, che immagina tramandate oralmente dai “Custodi del tempo”: la storia si mescola al racconto epico, al mito, alla leggenda, per narrare di un popolo antico, “i S’ard, “danzatori delle stelle” provenienti dall’Oriente. Il titolo evoca, in forma di idillio, l’utopia di un Eden perduto: “Passavamo sulla terra leggeri[5] come acqua … come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli”[6] .

E ugualmente leggeri, come “canne al vento”, sono, infatti, i destini di molti personaggi della Deledda. In Canne al vento, vive la metafora di queste anime che sono trasportate dal destino proprio come il vento, che, quando soffia, fa muovere le canne a suo piacimento.

“Canne al vento”

Canne al vento, come le anime di Paolo e Francesca, trasportate dal “voler” nel Canto V dell’Inferno di Dante: “E come li stornei ne portan le ali/nel freddo tempo, a schiera larga e piena,/così quel fiato li spiriti mali/di qua, di là, di giù, di su li mena…”
Canne, dunque, e un destino che regola il mondo, il vento. Ma le canne hanno anche una loro forza: si piegano, ma non si spezzano facilmente. E ugualmente forti sono, infatti, i personaggi delle pagine della scrittrice. Forti e spesso dannati, vittime del loro stesso desiderio, un desiderio che diventa incontrollabile e inarrestabile e talvolta una sete di vendetta incontrollabile[7]. La passione fa divorare le pagine fino ad arrivare al rantolo finale, alla morte, spesso, alla penitenza, all’annientamento dei personaggi o a un mucchietto di “cenere”, che è quello che rimane di certe esistenze, come l’immagine di Ananìa, esemplare, alla fine, della dolorosa vicenda protagonista di Cenere: “si avvicinò in punta di piedi al tavolinetto, sul quale aveva notato il suo sacchettino, squarciato, deposto su un piatto di vetro. Prima di toccarlo lo guardò quasi con diffidenza, poi lo prese e lo vuotò. Ne uscì fuori una pietruzza gialla, e cenere, cenere annerita dal tempo. Cenere!”

Vento

C’è nella scrittrice, un perfetto compenetrarsi tra i personaggi con i loro caratteri peculiari e la natura: quel paesaggio sardo che minuziosamente e magistralmente descrive, è riempito di sfumature e palpiti vitali che ne rendono l’asprezza e l’aridità, vive e musicali.

Domus de janas

La terra sarda, d’altra parte, così selvaggia nell’interno, e, in alcuni casi avara, si adatta perfettamente ai personaggi che l’autrice descrive, e si rivela uno sfondo perfetto per lo svolgimento di storie che somigliano a tragedie classiche.

La primitiva e cruda terra di Sardegna diventa così il teatro universale per la rappresentazione di drammi che si ripetono, sotto forme diverse, lungo tutto il percorso della storia umana. Scavi nelle pieghe dell’animo e della psiche che ci fanno passare da un verismo crudo, tipico del regionalismo, a un decadentismo che si fa strada sempre più e con maggiore energia. Grazia Deledda, del realismo crudo di Verga, per esempio, ha solo la parte iniziale: le cose che parlano “da sole”, la realtà così com’è. Un punto di partenza, perché poi le cose si trasfigurano in sentimenti, e parlano. Trapelano con facilità, dalla scrittrice, le lacrime delle cose, le piaghe più nascoste, i tormentati desideri cacciati.
Infatti, quando la passione e gli atti dei personaggi diventano simboli di qualcosa, siamo già in pieno decadentismo.

Allora, in questo senso, cogliamo tutti i palpiti e le emozioni dati dai cinque sensi, che avvicinano la scrittrice al D’Annunzio più fortemente sensuale, quello della cosiddetta “fase notturna”, la fase dell’Alcyone, che corrisponde anche al periodo della sua più intensa frequentazione epistolare con l’autore. E ascoltiamo allora i sensi che si muovono in sinestesie continue (“il roseo profumo d’incenso che si mescolava all’odore degli orti”, “ il caldo suono del campanile che rintoccava le ore”), in similitudini marcate (“si rallegrò anche Concezione nel grande letto tiepido che odorava di stoppia come un campo mietuto” ), in metafore forti, come gli ossimori (“il sole illuminava ancora le casupole ma con un bagliore roseo morente” ).

Carlo Levi, “Il miele di Orune”, 1963-1964, litografia

Talvolta, poi, ci troviamo in uno stile tipico del teatro pirandelliano, e sembra addirittura che si rompa la quarta parete; si passa da narratore di terzo grado a narratore di primo grado: “Elias si proponeva d’ esser anche lui furbo e forte, ma che volete? certi pensieri, certi ricordi, certe sensazioni lo assalivano così all’improvviso che egli allora non era più padrone di sé, e tornava a intenerirsi, ad arrabbiarsi, a vergognarsi.”[8]

Altre volte  il discorso è chiaro, la prosa fluida e precisa, e, in certi passaggi, sembra di poter cogliere lo stile del flusso di coscienza e i discorsi indiretti liberi, i monologhi, e si sentono vicini certi passaggi di Joyce, o i terribili soliloqui del grande Mastro don Gesualdo, che quando parla a Diodata, la serva, creatura primitiva, ma dolce e sottomessa, l’unica amata sulla terra, tanto ricorda  il dolce Efix (Canne a vento, cap.VI) che ascolta il libero fluire dei pensieri di Giacinto “come i bambini intenti alle fiabe”:

Allora il capitano disse: – Cerchiamo di aggiustare le cose. Io non voglio rovinarla: venga a casa mia, ecco il mio indirizzo: venga domani e assieme andremo dai suoi superiori. – Va bene! Ma l’indomani né poi l’amico andò. Aveva paura. Aveva paura. Eppoi il tempo era orribile ed egli non si muoveva di là. Tossiva e un facchino gli portava di tanto in tanto un po’ di latte caldo. Che tempo era? Che tempo!», ripeté Giacinto, e sollevò il viso guardandosi attorno quasi per accertarsi che la notte era bella” oppure Maria, quando pensa al pericolo scampato con Pietro, lungo la strada: “Egli crede sempre di potermi un giorno sposare; vuol essere ben voluto dai miei parenti; ed io . io non oso dirgli che è pazzo. Oh, Dio mio, son io la pazza; oh, la mia povera testa; che faccio io? Perché sono venuta oggi qui? Non sarebbe tempo di finirla? Sì, bisogna finirla. Stanotte glielo dico…Pietro, smetti ogni speranza, non tormentarmi più.” (La via del male, p. 282 in Romanzi e Novelle II, 1945).

E, come ultima riflessione, vorrei mettere in luce proprio il contributo dato dalla scrittrice alla nascita del romanzo italiano. Dimenticata, in questo contributo, nonostante il Premio Nobel per la Letteratura attribuitole nel 1926, a favore di autori più fruibili, e forse didatticamente spendibili.

Già con Elias Portolu, scritto all’inizio del 1900, essa appare padrona della struttura classica del romanzo di tradizione italiana, tanto che Momigliano dice “forse il libro di più alta moralità scritto in Italia dopo i Promessi Sposi”. È in questo personaggio maschile, infatti, Elias Portolu, che la scrittrice dimostra le sue più importanti caratteristiche: lo scavo dell’animo, la coscienza dolorosa del peccato, il senso negativo dell’amore: un sentimento negativo, che non migliora il suo carattere, non lo eleva, non gli ispira cose buone, lo  inasprisce, riempiendo il cuore di cattivi pensieri, di rudezza verso gli altri: “pareva che una bestia feroce s’agitasse entro quel giovine pallido, dall’apparenza mite, che spesso si vedeva seduto sul limitare della capanna, a gambe aperte, coi gomiti sulle ginocchia, immerso nella lettura di libricciuoli sacri“.

Dolore

E per tornare al giudizio di una facies composita delle diverse tendenze culturali di inizio ‘900, se si ricerca bene, nelle pagine della scrittrice sarda si possono riscontrare tutte le vie percorse poi dai più noti romanzieri del secolo (dal più crudo realismo[9], alla denuncia, dal racconto simbolico a quello psicologico). Con essi, dunque, la scrittrice completa il quadro dello sviluppo del romanzo italiano e ne diventa la forte rappresentante che conosciamo.

Piccinna ma ardita

“Sono piccina…ma sono ardita e coraggiosa come un gigante
e  non temo le battaglie”.

(Discorso in occasione della consegna del Premio Nobel)


[1] Da Edera, ediz. Mondadori

[2] Da Canne al vento, ed. Mondadori

[3] Ibidem

[4] Leopardi, Zibaldone, teoria del Vago e dell’Indefinito, 25 settembre 1821, p. 1789.
“Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse”

[5] Pubblicato postumo, è una rievocazione mitica della storia dei sardi, vista e raccontata come memoria comune tramandata di padre in figlio; qui, come nel pure postumo (Wikipedia)

[6] https://www.ilisso.it/prodotto/passavamo-sulla-terra-leggeri-2/

[7] È quello che accade a Bakis Zanche ne Le colpe altrui (1914), dove l’adulterio della moglie crea le condizioni per lo sfacelo della propria famiglia. Una colpa che chiama vendetta e Bakis, ripudiata la moglie Marianna, non ammette nessun rinsavimento sulla sua decisione, neanche di fronte alla morte del figlio Andrea: quando il ragazzo esanime viene trasportato sopra un carro che passa di fronte alla madre, il vecchio padre, anche di fronte al tragico evento, fa afferrare l’ex moglie dal servo facendola gettare in mezzo alla strada.

[8] Da Elias Portolu.

[9] Evidenti sono gli aspetti che fanno emergere l’affinità tra la scrittrice sarda e gli scrittori russi:  i caratteri di certi suoi personaggi, il loro inarrestabile cammino verso crisi psichiche profonde, l’alone morale che li circonda (come in tante pagine di Delitto e Castigo).