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I grandi imperi precolombiani e la conquista spagnola

Foto di Willian Justen de Vasconcellos su Unsplash

Roberta Giannì

Quando nel XVI secolo i conquistadores spagnoli arrivano nelle Americhe, entrarono in contatto con le popolazioni di quei territori, oggi considerate civiltà che alla pari di altre si sono distinte nella storia dell’umanità. Si trattava di civiltà precolombiane, per il fatto che sorsero in momenti storici precedenti alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492. Erano gli imperi Maya, Azteco e Inca. Si distribuivano sul territorio centro-meridionale dell’America, in particolare la zona del Mesoamerica per Maya e Aztechi e il Sudamerica per gli Inca, in un arco di tempo che va dal 2000 BC (Before Christ) al secolo delle conquiste spagnole. Questi territori erano un mosaico di popolazioni che si distinsero per la costruzione di monumentali città, nate su solide basi economiche e politiche, in cui esistevano elaborate forme artistiche che includevano anche l’abilità nella lavorazione dei metalli e delle pietre preziose, o forme rituali uniche come il sacrificio umano agli dèi.

Distribuzione delle popolazioni maya, azteca e inca

Le popolazioni del Mesoamerica distribuivano le città in differenti aree geografiche e climatiche. Alcune sorgevano su altopiani, altre erano nascoste nel verde degli alberi, altre ancora si affacciavano sui territori costieri. Oggi queste città costituiscono parte del Patrimonio dell’Umanità con milioni di visitatori l’anno; in passato, alcune di queste costituivano dei nuclei importanti, come Chichen-Itza, imponente città maya al centro della penisola dello Yucatán, la cui costruzione è considerata strategica per la sua funzione di centro commerciale responsabile dei collegamenti tra la città stessa e altri centri contemporanei. Anche la nascita di Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco, era legata ad una precisa area: secondo la mitologia azteca infatti, il dio tribale Huitzulopochtli promise alla sua popolazione di indicare il punto esatto in cui la città sarebbe sorta, ovvero nel punto in cui avrebbero avvistato un’aquila appollaiata su un cactus, con un serpente nel becco.

Ricostruzione di Tenochtitlan

Le città prevedevano un’area centrale in cui erano eretti i grandi templi religiosi e le costruzioni pubbliche, circondati dalle dimore degli abitanti d’élite. La restante parte della popolazione, caratterizzata per lo più da gente comune, occupava delle abitazioni locate al di fuori dell’area centrale.

Nelle famiglie, il maschio, in quanto marito e padre, provvedeva al benessere degli altri membri e si rendeva un elemento utile per la società attraverso il lavoro e il pagamento delle tasse. A Tenochtitlan, i residenti di ogni quartiere facevano capo a istituzioni denominate calpulli, in cui venivano confermati i pagamenti delle tasse. Le donne, in quanto mogli e madri, si occupavano dei figli e dell’ambiente domestico. Le ragazze imparavano presto le mansioni relative alla casa, mentre i maschi imparavano quanto più potevano aiutando il padre. Quando un bambino veniva al mondo, gli Aztechi celebravano la nascita per giorni, durante i quali gli esperti astrologi studiavano il giorno propizio in cui dare il nome al bambino.

In Mesoamerica, i giovani venivano introdotti alle armi all’età di 17 anni, periodo in cui aveva inizio un’intensiva preparazione. In generale nelle popolazioni precolombiane, l’educazione alla guerra faceva parte della vita degli individui, i quali erano incoraggiati nel mostrare il proprio spirito guerriero. Per gli Aztechi, la partecipazione alla guerra permetteva di dar prova del proprio coraggio, anche attraverso la cattura di un nemico da offrire poi in sacrificio, con il quale si garantiva il movimento del Sole.

La religione era di fondamentale importanza per ogni individuo: toccava ogni aspetto della vita. I templi sacri, le note “piramidi a gradoni”, erano costruzioni dedicate agli dèi.

Il Sole era per gli Inca la divinità principale, perché garantiva la coltivazione del mais, il principale elemento che caratterizzava la dieta delle popolazioni precolombiane. Lo stesso valeva per gli Aztechi, i quali inoltre credevano fermamente nell’idea di una possibile fine violenta del mondo: per posticipare questa fine, venivano offerte agli dèi vittime sacrificali umane e animali. 

I sacrifici umani erano dunque una realtà nella società precolombiana. I sacerdoti officiavano i riti, i quali avevano luogo nel corso di importanti celebrazioni organizzate durante l’anno, oppure acquisivano l’aspetto di implorazioni e preghiere rivolte agli dèi per il superamento di situazioni critiche. Le vittime includevano uomini, donne, bambini e occasionalmente animali. La maggior parte dei sacrifici avveniva per il dio Sole, per la Pioggia e per la Terra, responsabili della prosperità. Si trattava dunque di un’azione necessaria: gli dèi dovevano essere sfamati per mantenere l’ordine cosmico.

La vita dopo la morte era una certezza. I defunti erano seppelliti con tutti i loro effetti personali, che avrebbero continuato ad usare nell’altro mondo. In base alle sepolture scoperte successivamente, gli archeologi concordano sul fatto che le diverse modalità di morte prevedevano diverse destinazioni: in caso di morte naturale, l’anima del defunto viaggiava attraverso nove livelli nel sottosuolo fino a raggiungere Mictlan, il regno del dio dei morti. I guerrieri morti in battaglia e le donne morte di parto raggiungevano invece in cielo il dio Sole.

L’estetica dei Maya

L’arte precolombiana caratterizza nelle sue molteplici forme quella che è la cultura di questi popoli, distinguendone l’abilità nella lavorazione di metalli e pietre preziose e, più in generale, nella creazione di ornamenti e utensili che sono emblema della loro cultura e che li distingue dagli altri.
Particolare interesse suscita la loro attenzione per l’estetica e per le forme del corpo umano. Le cronache spagnole narrano di pratiche di rimodellamento del cranio, di decorazione di orecchie, naso e labbra e dell’utilizzo di tatuaggi e di pittura colorata per la decorazione simbolica del resto del corpo.

Il rimodellamento del cranio riguardava per lo più i bambini nati da poco tempo. La testa veniva fasciata e stretta tra due tavole, intervento che faceva sì che il cranio si sviluppasse in lunghezza o in larghezza. Numerosi sono i resti di bambini dal cranio deformato che gli archeologi hanno rinvenuto nel corso degli scavi all’interno di siti archeologici maya.  La deformazione del cranio non è l’unico esempio di intervento artificiale: gli studiosi parlano anche di una pratica di rimodellamento dei denti, che venivano sfregati fino ad ottenere una particolare forma voluta (pratica che doveva probabilmente provocare qualche fastidio al proprietario dei denti).

Molto utilizzata e dal forte carattere simbolico era la decorazione del corpo, ampiamente diffusa all’interno della popolazione. Veniva eseguita la decorazione di orecchie e naso, talvolta con pezzi di materiali preziosi come la giada. Ad essi si affiancavano poi i tatuaggi e la pittura sulla pelle. Le rappresentazioni scultoree di figure umane non permettono purtroppo di distinguere tra le diverse modalità di decorazione del corpo, anche per il semplice fatto che molte di esse non si sono ben preservate nel corso del tempo. Ancora una volta, sono i racconti spagnoli a fornire qualche dettaglio in più circa le forme d’arte maya relative alla decorazione del corpo. Secondo i loro narratori, i colori avevano una diversa valenza simbolica: ad esempio, il colore nero identificava i guerrieri e gli uomini non sposati; il blu era connesso ai rituali di sacrificio e dunque riservati alle vittime e agli officianti. Scrive il vescovo dello Yucatán, Diego de Landa: “Tatuavano il proprio corpo, e più lo facevano, più erano considerati coraggiosi, in quanto tatuarsi causava forti sofferenze, e si faceva in questo modo: gli esperti dapprima coloravano la parte del corpo che si intendeva decorare, poi praticavano delle piccole incisioni sulla pelle colorata, e in questo modo il colore rimaneva all’interno […]”. De Landa riporta che anche le donne avevano la possibilità di decorare il proprio corpo dalla vita in su, eccetto per il seno che serviva all’allattamento, con disegni che erano “più delicati rispetto a quelli degli uomini”.

Un’ulteriore curiosa caratteristica legata all’estetica maya consisteva nel raggiungere un’ideale forma del viso: visto di profilo, doveva seguire una linea che correva rettilinea dall’attaccatura dei capelli alla punta del naso. Tale carattere estetico era raggiunto attraverso la deformazione del cranio, oppure tramite delle protesi in resina o gomma che accentuavano la lunghezza della testa; non è raro vedere il profilo tanto ricercato dai Maya nelle immagini di uomini scolpiti di profilo.

I conquistadores e la leggenda di El Dorado

La cura e l’abilità nella lavorazione dei metalli preziosi fu per le popolazioni precolombiane un’arma a doppio taglio. Essa costituiva un aspetto importante all’interno della società, non solo per il suo carattere estetico ma anche per quello simbolico, che distingueva le diverse categorie sociali.  Tra i materiali più usati vi erano oro, argento e platino, per la creazione di gioielli e oggetti di vario utilizzo. Indossare gioielli in oro voleva dire essere un individuo in salute e di potere, che alla propria morte beneficiava di una tomba colma di oggetti in oro e argento, accompagnati da pietre preziose come giada, porfido e cristallo.

Gli studiosi hanno a lungo analizzato questo aspetto della cultura precolombiana non solo grazie ai ritrovamenti avvenuti nel corso degli anni ma anche grazie alle cronache spagnole, in particolare quelle dei conquistadores, che nel XVI secolo avviarono missioni esplorative nelle terre scoperte da Colombo, completamente sconosciute. I conquistadores, infatti, non immaginavano nemmeno l’esistenza di questi grandi imperi, delle imponenti città e della loro elaborata struttura sociale; a loro volta, queste antiche popolazioni non avevano mai sentito parlare degli spagnoli. Il sovrano inca Huayna Capac, aveva udito di strani uomini barbuti che si aggiravano nelle zone costiere. Gli uomini in questione erano i gruppi di conquistadores guidati da Hernándo Cortés e Francisco Pizarro, il primo sbarcato in Messico nel 1519, il secondo in Perù nel 1532.  Si narra che quando Cortés incontrò per la prima volta il re azteco Moctezuma, questi, per accoglierlo nelle sue terre, gli offrì oggetti in oro e pietre preziose, probabilmente chiedendosi se Cortés fosse un uomo o un dio, un alleato o un nemico per il suo popolo. Dagli eventi successivi all’incontro, si può intuire quale fosse la vera natura di Cortés. Nonostante disponessero di pochi soldati, gli spagnoli andavano a cavallo e sparavano coi cannoni, il che gli garantiva sempre un certo vantaggio nelle lotte contro i “selvaggi”. Dopo averli di fatto identificati come uomini ancora allo stadio primitivo rispetto a loro, i conquistadores distrussero in poco tempo quegli imperi, che per secoli erano stati floridi, imponendo le proprie credenze e tradizioni, assetati delle loro ricchezze e per le quali compivano omicidi e violenze di ogni genere.

Il Nuovo Mondo apriva le sue porte: fu in questo periodo che nacquero leggende come quella di El Dorado. Si narrava di un tempo in cui un re si innamorò di una donna della tribù vicina. La coppia si sposò ed ebbe una figlia. Col tempo tuttavia, il re divenne un uomo di inganni e dissolutezze, dimentico della propria famiglia. La regina, stremata dal dolore, si tolse la vita insieme alla figlia, annegando entrambe in una laguna. Il gesto riportò il re alla realtà: disperato, ogni anno svolgeva un rituale insieme ai sacerdoti e a una moltitudine di abitanti del luogo, in cui si cospargeva di resina e oro (da qui l’appellativo di “El Dorado”) e con un sottofondo di canti si dirigeva con delle offerte in oro e smeraldi verso il centro della laguna dove poi si immergeva, incontrando la regina sua sposa, divenuta dea della laguna. Col tempo, El Dorado si trasformò nella “Ciudad de El Dorado” (città di El Dorado), derivazione del mito originale della laguna, e centinaia di esploratori si dedicarono alla sua ricerca. La leggenda che narrava di una città d’oro si diffuse in tutto il continente: Hernando de Soto affermò di averla trovata in nord America, Francisco de Orellana, nel corso delle ricerche, finì in Amazzonia. Il mito aureo diede vita ad una grande “corsa all’oro” nei territori americani, insinuandosi nelle menti di quegli uomini che radunati i mezzi necessari, partivano alla volta di queste terre sognando di compiere una delle scoperte più eccezionali mai compiute. Per la Spagna, El Dorado fu allo stesso tempo un’occasione e una maledizione: l’intero periodo coloniale si basò sull’obiettivo dei conquistadores di trovare la tanto agognata città d’oro, con le sue inimmaginabili ricchezze. Ma era anche una demoniaca ossessione, che portava alla morte, all’infamia, allo sperpero di denaro in cerca di una città difficile da trovare, senza effettive ricompense.

La conclusione della storia è intuitiva: El Dorado, nel bene e nel male, è in realtà il Nuovo Mondo. I conquistadores scoprirono effettivamente qualcosa, non metallo prezioso in tonnellate, ma complesse culture, meraviglie naturali, popolazioni che col tempo si sono evolute in una sola, eterogenea; un tesoro umano che, accecati dalla brama di oro e dai sogni di gloria, hanno messo da parte.