Approdi Oltre il confine

Il Convivium… “non per mangiare e bere, ma per mangiare e bere INSIEME”

di Mara Torricelli

Banchetto, convivio e simposio…sono parole che sembrano rimandare tutte ad uno stesso significato. Ma, se guardiamo alla loro evoluzione nella storia e nell’antropologia, possiamo vedere che non è così.

Cominciamo dal banchetto, la cui idea generale è data da un tavolo intorno a cui si mangia; vi si posano i cibi che, a seconda delle epoche e dei periodi storici, sono frutto della caccia, o primitive zuppe di cereali ammorbidite nelle prime scodelle di terracotta, o pranzi luculliani, estremamente sfiziosi e ricercati, tipici dell’era moderna.

La parola banchetto viene dal francofono banquette e dal tedesco bank (di cui banchetto risulta essere il diminutivo), che significa genericamente “tavola di legno”, metaforicamente riferita a persone che si riuniscono intorno ad un piano per mangiare (quasi un sinonimo di “mensa”). Ma il banchetto, nella sua portata sociale e comunitaria, “era cosa ben diversa” e aveva spesso un “significato rituale e sociale che si allontana dalla semplice pratica alimentare” (Wikipedia) avvicinandosi sempre più, invece, ad una parola che ha un significato  molto più profondo, il convivium.

Il lemma è formato, infatti, da cum+vivo, “vivere insieme”. Questo senso comunitario a cui ci si riferisce è diverso da quello che intendiamo oggi, sempre più spinti fuori casa a festeggiare -spesso tramite organizzazioni o incontri sui social network,- o ad aspettare alla porta del cibo fatto da fast food e recapitato in casa. Partecipare ad un convivio significa che le persone che si riuniscono ad un banchetto hanno interessi ideali e intenti comuni, sono una cerchia scelta, estranea da vincoli familiari e casuali. E, soprattutto,  non si tratta di semplice “cibo servito su un tavolo” , non si tratta di “mangiare” ma di “mangiare insieme”, in un’unione che crea serenità e piacere: “…misuravo il piacere dei conviti non tanto dall’appagamento dei sensi quanto dalla compagnia e dal conversare tra amici”, dice Cicerone[1].

I Greci e poi gli Etruschi, aggiunsero anche il momento seguente al Banchetto, il simposio, dove si suggellava la riunione e l’accordo bevendo insieme[2], fedeli ad un Dio, Dionisio che, se non altro, aiuta ad allontanare il dolore. Dice il poeta greco Alceo che Dionisio “diede agli uomini il vino” per dimenticare i dolori del giorno…di cui ora rimane solo la lunghezza di un dito[3]. Gli fa eco nella letteratura latina Orazio[4], che loda il vino capace di far miracoli all’animo: “tu ridoni speranza agli animi ansiosi / e forza al povero che dopo avere bevuto/ non teme più le ire regali/ e neanche le armi dei soldati.

La storia dell’uomo è costellata da esempi di questo tipo di convivialità. Gli esempi più evidenti sono forse nei Vangeli, dove Gesù mostra di gradire molto il banchetto (il “banchetto d’amore”): si circonda dei suoi discepoli, per condividere con loro gli ideali di Dio e la vita futura; per salutarli, nell’addio finale dell’Ultima cena.
In altre occasioni, Gesù è stato invitato, e si è auto-invitato a banchetti dove ci fosse da condividere l’unità, la fede, gli intenti comuni. Un unico patto spirituale e civile sanciva i “giuramenti e gli accordi”, come avveniva, in ambito civile nelle polis greche, quando gli uomini sancivano insieme i pilastri della democrazia e degli ideali del cittadino[5].
A questo punto, come si capisce, il convivio non è un luogo dove, semplicemente si mangia e si beve, ma, come dice Plutarco: dove si mangia e si beve “insieme”[6].

È dunque comprensibile che questo tipo di banchetto, porti con se anche altri nobili ideali, come l’attenzione nella preparazione di un banchetto, alla comodità, all’agio e al piacere degli ospiti. Varrone, per esempio, dice:  “un convivio si può dire che sia perfettamente riuscito quando sia stata curata l’ora e non trascurata la preparazione”[7]e Marziale nei suoi Epigrammi., ricorda anche che si dovevano dare dei doni agli invitati: “Ciascuno dia al suo invitato il regalo che gli si adatta”[8].
Piccoli stralci di attenzione, per gli altri. Ma soprattutto, ciò che doveva emergere era la sacralità dell’ospite.

La letteratura latina ne offre chiari esempi, come l’esemplare racconto che Ovidio fa nelle Metamorfosi[9] di Filemone e Bauci, due vecchietti che vivono la parcitas e la simplicitas, usando i semplici frutti del loro orticello. Il giorno in cui arrivano da loro due stranieri che bussano alla porta chiedendo ospitalità, essi non chiedono loro chi siano, non pretendono referenze: accolgono gli ospiti offrendo un posto a tavola pulito e confortante, versando acqua limpida per le mani e poi offrendo il cibo migliore che una umile casa poteva dare. I due vecchietti sono disposti perfino a sacrificare la loro unica oca, tenuta in serbo per grandi occasioni. Ma, a quel punto, i forestieri rivelano di essere Giove e Ermes, venuti in incognito in quel paese, per controllare la lealtà degli abitanti verso gli dei.

Tutti hanno chiuso loro le porte, eccetto loro, che ora saranno premiati. Un premio? Si, ma non ori né ricchezze chiedono Filemone e Bauci, piuttosto la realizzazione del più grande desiderio: poter vivere insieme per sempre. Così saranno trasformati in alberi, che intrecceranno i loro rami in eterno, testimoni degli ideali antichi, che Roma sembra aver perso: la semplicità, il vivere con quello che è sufficiente, l’amore per gli altri. Ideali senza tempo, validi e incrollabili, come sembra, anche dopo tremila anni.

Al tempo di Ovidio, però, si stavano del tutto perdendo, per lasciare il posto alle ricchezze materiali piovute a Roma in seguito alle grandi conquiste fino al I sec., il cui desiderio stava abbagliando la classe dirigente romana in procinto di entrare nelle gole dell’Impero. Ne è esempio, in età neroniana, il racconto che Petronio fa de La cena di Trimalcione, nel Satyricon. Qui la realtà che abbiamo visto in Filemone e Bauci è del tutto rovesciata.

Il protagonista, Trimalcione, un liberto arricchito, apre le porte della sua opulenta dimora a chiunque abbia come scopo finale non alti valori civili, ma il piacere fisico. La tavola, i cibi, lo sfarzo sono metafora della vita opulenta della nuova società, di una ricchezza sempre più dilagante che arriva in Italia dalle terre conquistate. Si infiltrano negli usi romani nuovi piaceri: profumi, spezie, mode orientali inesplorate.
I costumi antichi vengono sostituiti da altri: la frequentazione delle terme, i massaggi con unguenti preziosi ad intervallare gli impegni del giorno, l’acquisto di statue greche classiche trafugate dalle regioni conquistate. Le leges suntuariae del II sec[10], mostrano la necessità, fin dagli inizi, della classe conservatrice di porre una barriera allo sfarzo e al lusso, di cui è realistico ritratto il banchetto offerto da Trimalcione. Nella casa del liberto arricchito, protagonista è l’eccesso. Tutto è “troppo”: l’ostentazione della ricchezza ( stoviglie d’argento cadute a terra da un servo non si raccolgono ma vengono gettate via con noncuranza[11]), l’iperbole di un qualunque atto relativo al banchetto (il cibo viene mangiato a dismisura; gli animali arrosto serviti sono pieni di altri animali per stupire e meravigliare, non per nutrire[12]) . Gli invitati non sono scelti o selezionati con cura: arrivano senza distinzione; basta che omaggino il crapulone Trimalcione. La centralità dell’ospite, si è persa nella dismisura.

È evidente che i principi morali che avevano nutrito Roma, sono ormai capovolti. Ed è curioso che Ovidio e Petronio, che hanno portato esempi così diversi, vivano entrambi all’inizio dell’età imperiale, quasi ci sia un’affinità fra i due scrittori, nella volontà più o meno velata di ribellarsi a qualcuno. D’altra parte entrambi, avevano una controparte, se non vogliamo dire un “antagonista”: Petronio vive sotto Nerone, e da lui, infine, sarà ucciso. Ovidio vive sotto Augusto, un Imperatore che aveva come intento primario, di restaurare la “moralità” dei costumi, e che mal tollerava le attenzioni del poeta all’ ars amandi, e ai piaceri ad essa legati.

Non si deve pensare, però, che l’idea di piacere, sia del tutto esclusa dal Convivium inteso in modo semplice e spirituale: stare vicino agli amici è di per sé, un piacere. È stata proprio la religione ad accettare, per prima, l’idea di piacere connessa al cibo, e a darne un senso di unità e comunicazione: l’apostolo Paolo, che cerca di minimizzare l’importanza verso il cibo (per scelta di una vita dedita al sacrificio), non può non affermare che il regno dei cieli “non poteva non riguardare il mangiare e il bere” e la Bibbia stessa è di per sé un’importante fonte sia per conoscere il cibo e quanto; il piacere legato ad esso, non sia del tutto escluso o demonizzato[13].
Anzi, in nessuna testimonianza scritta, come nella Bibbia, si parla tanto di cibi e bevande, e in nessuna, come nei quattro vangeli, si parla tanto di banchetto e convivio: luoghi di comunione con lo spirito e incontro con gli altri. “Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni ai poveri e a far festa perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate”[14]

Mangiare soli non è preso in considerazione, forse perché mangiare soli, non è un segno positivo. Nell’immaginario “mangiare soli è segno di ferinità; magari di una ferinità scelta dall’uomo come esperienza esistenziale come nel caso di tanti eremiti cristiani dell’alto Medioevo, che nella solitudine dei boschi cercano un contatto più diretto con Dio”[15].

Dunque, il piacere non è escluso dai banchetti, anche se non ne è lo scopo. È quando il banchetto si trasforma in Convivio che si dà un senso all’unione degli spiriti, per rafforzare l’amicizia e il legame. Ed è curioso notare che, con gli anni, il luogo eletto di un banchetto, non è dove si mangia, ma dove si cucina! È lì, infatti che si produce: il pane da spezzare, la focaccia per nutrire, la carne da cuocere e ammorbidire, la verdura da amalgamare. Il palato ha un piacere figlio della Natura umana che non si può soffocare, e che anzi, crea il legame di forza per la gioia dell’offrire e del donar: “tu sei una persona preziosa per me, e io ti dono cibo con le mie mani” il ricordo ancestrale della vita che il genitore passa al figlio è connaturata in ogni creatura della Natura. Come tutti sapremo per esperienza, infatti, in pochi luoghi, come in cucina, si realizza quell’alchimia che fa di cultura, attenzione, amore gli ingredienti per il piacere del palato e del gusto, che si uniranno al piacere dei legami. In cucina il risultato sarà ottimo, se ci sarà stata la spinta della volontà data dal trasformare magico il lavoro delle mani in cibo da offrire a chi ami.

Il cibo unisce, fortifica i legami e crea miracoli[15]. Da sempre unisce e fortifica i legami. È dai tempi più bui della storia dell’uomo che l’immagine di un confortante fuoco unisce più persone. Ovvio che il cibo nasca come necessità, e sia urgenza fin dal primo momento di vita ma, fin da allora, è anche momento di condivisione: ci si riunisce intorno al cibo, e poi intorno al fuoco che difende, isola, e ammorbidisce quel cibo.
Nella Preistoria, i nemici non c’erano in quei cerchi di fuoco dentro o fuori le caverne, c’era il proprio clan, la propria famiglia. Lì il cibo era nutrimento ma anche condivisione: si divideva il frutto della caccia, si assegnavano i compiti, si sperimentavano le prime forme di linguaggio e di comunicazione. Lì, nasceva il convivio.

Ma i banchetti inevitabilmente seguono la storia: a volte il significato proprio del convivium si perde, e sembra per sempre, come durante e dopo le invasioni barbariche, dove il cibo ritorna ad essere necessità primitiva e piacere della carne.

Ma delle cose preziose qualcosa, sempre, sopravvive: contemporaneamente il cristianesimo dilagante e il monachesimo nascente, riportano alla luce il rapporto cibo-mangiare insieme-vita. Nei cenobi benedettini si mangiano le cose prodotte dai primi orti creati dopo le devastazioni, si prega, perché ogni giorno è un dono, e insieme si lavora[17].
Attraverso il mondo Medievale e poi nel Rinascimento, fino ai tempi più vicini a noi, del convivio rimane il senso allegorico del mangiare insieme per importanti occasioni: quale grande evento storico, non si è sigillato con un banchetto? Infatti, oggi il termine è usato col significato ampio di “occasione di festa”: noi diciamo “sarà un momento conviviale” per indicare un invito a feste di paese, a ricorrenze, a cerimonie.

Qual è il termine più giusto da usare oggi, allora? Banchetto o convivio? Ancora una volta, a ben guardare, tutto dipende dalle scelte che vogliamo fare, dagli intenti che vogliano seguire.
Come sempre è nel nostro cuore che avvengono gli incontri e le scelte più importanti.


[1] Neque enim ipsorum conviviorum delectationem voluptatibus corporis magis quam coetu amicorum et sermonibus metiebar. Cato Maior de Senectute – 45

[2] simpòṡio, dal lat. symposium, gr. συμπόσιον, comp. di σύν «con» e πόσις «bevanda», : bere insieme. È la seconda parte del banchetto nella quale i commensali bevevano secondo la prescrizione del simposiarca (il rex convivii dei Romani), cantavano carmi conviviali, recitavano poesie, assistevano a trattenimenti vari e conversavano.

[3] Beviamo, perchè aspettare le lucerne? Breve è il tempo.( Πώνωμεν· τί τὰ λύχν`ὀμμένομεν· δάκτυλος ἀμέρα·)fr. 346

[4] Orazio, Ode III, 21

[5] Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. E’ l’arte, la scienza o l’attività dedicate alla convivenza (L’onestà delle parole, di Gustavo Zagrebelsky; in Accademia della crusca)

[6] Plutarco, Dispute conviviali, II

[7] La citazione è riportata da Gellio in Notti attiche, XIII, 11

[8] Praemia convivae dent sua quisque suo”, Marziale,  Epigrammi, XIV, 1

[9] Ovidio, Metamorfosi, L-VIII

[10] Già nel 215 a.C. la Lex Oppia cercava di limitare la ricchezza degli abiti femminili. In seguito lo stesso Giulio Cesare e poi altri imperatori, intervennero contro le vesti di uomini e donne stabilendone anche il prezzo. Con l’avvento del Cristianesimo i documenti citano, per i primi secoli, esclusivamente prediche di monaci o ecclesiastici contro costumi considerati troppo audaci.(Wikipedia)

[11] Petronio, la Cena di Trimalcione, 39: “nel mezzo di quel caos, caso vuole che cada un piatto d’argento e che subito uno schiavetto lo raccatti: Trimalcione se ne accorge e ordina di schiaffeggiare il ragazzino e di ributtare a terra il piatto che finisce scopato via insieme a tutto il resto”

[12] Un cinghiale di eccezionale grandezza che ha tra le zanne una sporta piena di datteri freschi e, quando il cinghiale viene sventrato, escono fuori dei tordi. Petronio, la Cena di Trimalcione, 40

[13] “Approvo l’allegria, perché l’uomo non ha altra felicità, sotto il sole, che mangiare e bere e stare allegro” (Genesi 8;15).

[14] (Neh 8,10-12).

[15] Massimo Montanari. Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola. Roma-Bari, Laterza, 1989. La citazione è presa da www.taccuinigastrosofici.it

[16] L’argomento dell’alchimia cibo-amore, condito con abilità e  strategia (che spesso sembra magia) sono l’argomento della migliore filmografia di questi decenni; pensiamo a Chocolat, a Come l’acqua per il cioccolato, pensiamo a Il pranzo di Babette.

[17] Cucinare, servire, tenere in ordine, coltivare…attività ereditate dal Mos maiorum romano, si contraggono nella massima benedettina “ora et labora”.