Tradurre poesia o il suono di una sola mano

Foto di Rodolfo Marques su Unsplash

di Francesca Diano

La prima volta che mi avventurai a tradurre un testo, al di là delle classiche versioni scolastiche dal latino o dal greco, avevo sedici anni. S’era durante le vacanze estive in Versilia e mio padre mi mise in mano un’edizione in francese de Il libro del tè di  Kakuzō Okakura, ignoto in Italia fino a qualche anno fa, dicendomi: <<Traduci. Se non capisci qualcosa chiedi a me.>>

A scuola studiavo tedesco, il francese lo leggiucchiavo e ancora non conoscevo l’inglese, lingua in cui era stato scritto l’originale – l’avrei incontrata solo anni dopo – e che ora posso dire  è  per me quasi una seconda lingua.
<<Ma è impossibile! Non so il francese così bene>>, protestai.
<<Non ti preoccupare. Tu traduci.>> E in effetti, con mia meraviglia, ne tradussi quasi metà.
Dev’essere stata una pessima traduzione, impubblicabile, ma mi affascinò il processo del tradurre che, in questo caso, non aveva nulla a che fare con le versioni scolastiche. L’argomento lo conoscevo. Erano gli anni in cui mio padre teneva un frequentatissimo corso di Storia delle Religioni e a casa parlava spesso di buddhismo, di shintoismo, di confucianesimo e di Zen, di letteratura e di estetica giapponese e cinese e quindi l’oggetto di cui il raffinatissimo libro di  Kakuzō Okakura trattava mi era familiare. E questa era già una base da cui partire, perché chiaramente il secondo requisito per chi traduce un testo è la conoscenza dell’argomento. Il primo è la perfetta conoscenza della lingua originale.

Mi chiedo ancora oggi perché mio padre mi abbia data in pasto a un testo di cui non conoscevo bene la lingua. All’epoca mi parve evidente che stesse sopravvalutando le mie capacità, ma non era così. Il motivo era un altro: penso che mi abbia volutamente lanciata nel bel mezzo dell’arena a combattere a mani nude le insidie della traduzione. E fu un’ottima cosa, perché poi ne incontrai di peggiori.
Da allora è passato moltissimo tempo e ho vissuto molte vite, ma la passione per la traduzione si è andata rafforzando. Ho tradotto un numero considerevole di libri e numerosi autori, ma solo pochi li ho amati profondamente perché me li sono scelti personalmente e alcuni li ho fatti scoprire in Italia. Notissimi all’estero, da noi erano sconosciuti. Uno di questi autori è il grandissimo e celebre poeta irlandese James Harpur, conosciuto da noi solo per il poco che di suo sono riuscita a pubblicare.

È questo il compito più alto e nobile della traduzione, quello di condividere e tramandare la conoscenza e la bellezza, di unire e arricchire le diverse culture. In Irlanda c’è un detto: “Una gioia condivisa è gioia doppia”, e proprio questo dev’essere lo spirito con cui un traduttore si fa ponte.
Ho tradotto soprattutto narrativa e saggistica, ma la cosa che più mi appassiona è tradurre poesia. Può farlo qualunque traduttore? No, non chiunque; si deve essere poeti prima di tutto. Non necessariamente grandi poeti, ma è indispensabile conoscere il linguaggio, il suono, l’essenza, il ritmo, le tecniche del linguaggio poetico per poter trovare nella propria lingua una forma poetica adatta a dar voce il più possibile fedele all’originale.
Ho tradotto molti poeti, del passato e contemporanei, ma in Harpur, che seguo ormai da quasi vent’anni nella sua ricchissima produzione e di cui ho tradotto una buona parte dell’opera, ho trovato il MIO poeta, quello che più profondamente risuona dentro di me e la cui voce mi scorre dentro spontanea nella nostra lingua. Con lui accade una cosa strana; lo leggo in inglese e affiora alla coscienza in italiano. Una sintonia naturale e istantanea.
Ma cos’è per me la traduzione? 

Per me tradurre è – come nel  quesito posto dal celebre kōan zen – cercar di trovare il suono d’una sola mano. Il “suono senza suono”. Un paradosso, forse un’impossibilità, se sono due i poli che interagiscono – il testo e il suo specchiarsi in un’altra lingua – due mani che, unendosi, generano una terza entità, prima fluttuante solo nel regno del possibile, cui non si può accedere aggrappandosi a forzate teorie accademiche sulla traduzione, ma solo con l’umile pratica. Quella terza entità è il suono del silenzio che si crea in quel rispecchiamento. Eppure, è qualcosa che mi viene naturale. Forse perché ho imparato osservando un Maestro, e ho respirato l’arte del tradurre fin da bambina.

Il suono d’una sola mano è un silenzio colmo; così è il silenzio del testo originale a colmare di sé la sua traduzione. Tradurre poesia è impresa quasi disperata. Quasi. Se la poesia è la ricerca, che mai può giungere a mèta, d’una parola che tutto contenga, manifesti ed esaurisca, insomma dell’inesprimibile; se il suo orizzonte è sempre al di là d’un altro orizzonte, legata indissolubilmente al ‘sentimento’, oltre che alla struttura, della lingua in cui viene generata e prende forma, e all’intrecciarsi inestricabile d’esperienza conoscenza vissuto inconscio visioni fantasmi suoni interni del poeta, come si potrà trovare forma altrettanto fedele, o anche solo evocatrice di quello, in ogni senso, straniero dire? Travasare un inesprimibile in un altro inesprimibile? Eppure, ci si avventura a farlo. Per amore, passione, fiducioso e sconsiderato entusiasmo. Ma soprattutto, almeno per me, per condividere la felicità di qualcosa che mi ha resa maggiormente me stessa, che ha aperto mente, cuore e spazi prima ignoti.
Tradurre non può che essere un atto d’amore. Con una chiosa necessaria: tradurre, per me, è conoscere. Del resto, anche l’amore lo è. Non è forse l’amore il più grande traduttore dell’altro, e di noi stessi?

Un’artigiana della traduzione quale io sono, impara che è questo il mezzo più diretto ed efficace per penetrare all’interno dei meccanismi della creazione, osservarli, percepirli nel loro divenire. Sotto la superficie dell’opera compiuta, com’essa appare all’esterno, pulsa un tessuto segreto, che la costituisce e la sostiene. È il regno cui si ha accesso traducendo. Questo sguardo furtivo, arricchito di conoscenza, privilegio d’ogni traduttore, va fatto scivolare fino a raggiungere la propria interità, perché la permei e la metta al servizio dell’autore che si è scelto. Si dev’essere generosi di sé.

Parlo di scelta, perché è bene, soprattutto nel tradurre testi poetici, accostarsi a poeti che si amano, che si conoscono, che si sono seguiti a lungo, o dei quali ci si è improvvisamente innamorati. Così, forse si potrà sperare d’avvicinarsi alla loro voce e di dar loro, nella nostra lingua, un suono che non strida, non entri in conflitto o, peggio ancora, non li tradisca del tutto. Come talvolta purtroppo avviene.

Si deve lasciare rispettosamente uno spazio tra l’originale e l’opera che un traduttore di poesia compie. Uno spazio veritiero. L’autentica traduzione è quello spazio stesso; il suono d’una sola mano. Tuttavia, è indispensabile un accurato lavoro filologico ed ermeneutico, senza il quale ogni traduzione d’un grande testo sarà fallimentare. Però, una volta compiuto questo lavoro, lo si dovrà dimenticare e lasciare che il testo si impadronisca di te e ti modifichi. Come se, nel momento in cui ci si avvicina ad esso, si vivesse una metamorfosi e si dimenticasse d’essere ciò che si è per lasciarsi catturare, per diventare il testo stesso. Eppure, anche questo può accadere solo in parte, perché il testo e il suo autore incontrano l’universo del traduttore, che non può che far da filtro, da setaccio, oltre che da crogiuolo. Ed ecco perché due traduzioni d’uno stesso testo – intendo due buone e dignitose traduzioni – non potranno mai essere uguali. Un po’ come, nel generare dei figli, due patrimoni genetici si uniscono creando combinazioni sempre diverse. 

E mai come per un poeta quale è Harpur, tutto questo è vero. La sua vastissima cultura, i numerosissimi riferimenti, talvolta solo suggeriti, il sottofondo filosofico, rendono necessario un complesso lavoro filologico anche se, fortunatamente, il poeta è sempre generosamente pronto a fugare ogni dubbio possa sorgere. Ma poi, il resto, quello che deve dare al poeta voce il più autentica possibile nella tua lingua, tocca al traduttore e non al filologo.
Nel tradurre Harpur ho cercato di rendere la grande varietà dei temi e degli stili, che nondimeno presentano una straordinaria coerenza e una continuità in costante evoluzione.

Tradurre l’opera di Harpur non è cosa semplice: anzitutto perché il suo linguaggio, benché limpidissimo e mai scontato, è intessuto di riferimenti, di stratificazioni storico-culturali, di echi delle tante tradizioni culturali e letterarie che in lui si fondono e, ancora, per la musicalità ed estrema preziosità della parola e per l’arte con cui egli costruisce i testi: allitterazioni, assonanze, rime infrequenti (e perciò particolarmente significative), il ricorso alla metrica greca e latina o a quella della tradizione bardica.
Con umiltà ho cercato di udire in tutto questo il suono d’una sola mano, la sua.
Ho scelto dunque questa poesia di James Harpur per rispondere al gentile invito di Renato De Capua di collaborare alla rubrica Aquiloni, dedicata alla traduzione, della sua bella rivista Clinamen, proprio perché in questo testo davvero visionario, l’immagine arcana del misterioso giovane divino che raccoglie le splendenti comete fluttuanti nel cielo notturno e le guida come aquiloni, finché non si rivelano essere gigantesche lettere di un linguaggio sacro, è non solo geniale metafora della vera essenza della poesia e della sua genesi, ma anche del processo del passaggio dall’immagine interna alla parola. Che è poi la genesi dell’arte.      


Visione di comete [1]

Il volo era in ritardo.

Fuori, il cielo notturno era nitido,

E la terra che il giorno aveva accolto il sole

Ora dormiva nel silenzio.

Poteva essere un’isola greca

O la nuova terra d’America.

Tornava a casa, una buona volta, o cattiva,

E il fermento dei ricordi accumulati

Delle amicizie d’un tratto emerse dal centro

Del ventre in repentine ondate di nausea.

Il tempo ticchettava e i passeggeri sedevano in file

Sotto le tremolanti luci al neon

Tacitando pian piano l’inquietudine

Per l’attesa dell’annuncio del volo.

Ed infine, sprofondato del tutto

In sensazioni dolenti di perdita e rimpianto,

Fu sorpreso da un senso di pace,

Dall’inspiegabile intima certezza

Che fosse giusto ritornare a casa.

D’improvviso si sentì sereno e, volgendosi,

Vide la gente alzarsi tutta insieme,

Radunare in fretta i bagagli e muoversi

Verso il punto d’imbarco.

Tornò indietro risalendo la folla per cercare le borse

E salutare quelli ch’erano stati cari amici.

Stranamente, avvicinandosi al posto in cui era stato

Vide qualcosa che gli parve stellata oscurità –

Quasi il muro si fosse dissolto –

E la gente svanire ai bordi dello sguardo.

Gli parve di conoscere il giovane lì ritto.

Era certo all’esterno perché l’oscurità

Si dilatava intorno chiudendo gli orizzonti.

Si avvicinò all’uomo, che indicava il cielo.

E lì, a infuocare il buio di zampilli d’oro,

Dolcemente otto comete fulgide solcavano la notte,

Lente levandosi, girando, scivolando, immergendosi

Come aurei delfini che balzano nell’azzurro oceanico.

Le loro code, da cui effluvi di scintille

Sprizzavano e svanivano, si intrecciavano, muovendosi

Come guidate da un’intelligenza,

Come le comete fossero guidate con fili d’aquilone

Da questo giovane che muoveva le mani.

Poi le comete presero a dissolversi –

Ma le particelle si riallinearono e si fusero

In tratti luminosi con punti e ghirigori –

E capì ch’erano parole ebraiche gigantesche,

Che gli dicevano quale fosse il suo scopo,

Quale la sua missione sulla terra.


A Vision of Comets

The flight was delayed.

Outside, the night sky was clear,

And the land that had received the sun all day

Now slept in silence.

It could have been a Greek island

Or the new land of America.

He was returning home, for good, or for bad,

And the welter of accumulated memories

And friendships loomed up from the pit

Of his stomach in sudden queasy waves.

Time tickled on and passengers sat in rows

Under the flickerings of neon

Slowly numbing themselves to the worry

Of wondering when the flight would flash up.

Eventually, sunk in the midst of

Painful feelings of regret and loss,

A sense of peace overtook him,

An inner inexplicable assurance

That his journey home was right.

He felt suddenly at ease and, turning round,

Saw people rising as one from their seats,           

Quickly assembling their luggage and moving

Towards the gate for their departure.

He went back against the flow to find his bags

And say goodbye to those who had been his intimates.

Strangely, as he approached the place he’d been,

He saw what seemed to be starry darkness –

As if the wall had melted away –

And people vanishing into the fringe of his eyes.

He somehow knew the young man who stood there.

It must have been outside for the darkness

Stretched all around sealing the horizons.

He approached the man, who pointed to the sky,

And there, igniting the dark in golden sprays,

Eight glowing comets moved softly through the night,

Slowly rising, turning, dipping, gliding

Like gilded dolphins hooping through the ocean blue.

Their tails, from which auras of sparkle

Would fizz and fade, were interwoven and moving

As if guided by an intelligence,

As if the comets were on the kite strings controlled

By this young man as he moved his hands.

Then the comets began dissolving –

Yet their particles realigned and coalesced

Into luminous strokes with dots and squiggles –

And he realised they were giant words of Hebrew,

That they were telling him what his purpose was,

What his mission was on earth.


[1] Da J. Harpur, A Vision of Comets, (Visione di comete), Anvil Press 1993. Trad. it. Francesca Diano.