Procedere per larghe campiture: intervista a Giancarlo Mustich

di Renato De Capua

Giancarlo Mustich è nato a Taranto nel 1986. Dopo aver frequentato il Liceo “Lisippo” di Taranto (oggi Liceo “V. Calò”), si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, vivendo prima nella stessa città, per poi spostarsi successivamente a Berlino. Attualmente vive a Roma, dove compie attività di continua ricerca e lavoro presso il suo studio.

GIANCARLO MUSTICH, credits photo Enzo Bianco

Cominciamo dall’inizio. Quando pensi di aver scoperto la tua arte?

Ricordo un episodio in particolare che fu per me una vera e propria folgorazione, come se in quel momento avessi capito di avere una vocazione per l’arte. Una sera ero con mio padre, entrambi sul divano dopo cena. Eravamo soliti guardare un film insieme e quella sera in televisione ne davano uno in cui, in una scena, un uomo era intento a realizzare un disegno dal vero in un’accademia.

Io ero molto piccolo, avrò avuto tra i dieci e gli undici anni ma sentii come se quella scena potesse suscitare in me una reminiscenza, come se ci fosse una certa consolidata familiarità tra il mio vissuto e la scena cui assistevo. Subito dopo la fine del film, andai in camera mia e iniziai a disegnare, proprio ispirato da quanto avevo da poco visto.

Un altro momento fondamentale, nell’ambito del mio percorso formativo degli inizi, è avvenuto a partire dalle scuole elementari. In quegli anni ero molto affascinato dalla storia e mi avvicinai a due ambiti totalmente differenti: la storia antica (in particolare, l’iconografia egizia) e Picasso.

Il mio primo immaginario si formò sulla contaminazione tra questi due mondi: essi creavano una sorta di contrasto, nel quale mi era però possibile ravvisare una certa armonia.

Qual è stata la tua prima opera?

Proprio sospinto dalle suggestioni che la contaminazione tra il mondo egizio e Picasso evocavano in me, iniziai eseguendo moltissime riproduzioni, della statuaria egizia, di varie sculture micenee e di Picasso. Questi furono soltanto alcuni miei primi tentativi di accostamento all’arte, poiché non avevo ancora intessuto una buona relazione tra la testa e la mano. Sicuramente quei primi modesti approcci furono il mio punto di partenza, un continuum lungo il quale non mi sono più fermato.

Se dovessi individuare un punto di vera e propria svolta, lungo il cammino di conoscenza della mia arte, mi viene subito in mente quando frequentavo il terzo anno del Liceo Artistico. Lì incontrai due professori di figura dal vero che, a differenza di molti altri, decisero di credere in me. E se è vero che certi incontri ti cambiano la vita, altri ti “cambiano la mano”; iniziai così a credere in me stesso e a sentire un legame più forte e sicuro nella relazione tra la testa e la mano. Questo per dire che, nello scoprire noi stessi e nell’affacciarci al mondo, abbiamo sempre bisogno di qualcuno che creda in noi.

Qual è la specificità dell’artista come attore intellettuale?

Il linguaggio dell’arte, come ogni tipo di linguaggio, ha le sue regole che devono essere comprese e rispettate, ma anche interiorizzate. L’artista, nella mia visione, è colui che va al margine, muovendosi nell’orizzonte del limite e meditando come approdo non un porto sicuro, ma una deriva.

Questa deriva implica la costante messa in discussione di ogni tecnicismo ed è grazie a questo processo di decostruzione che la mera accezione di arte, come diretta applicazione di una o più tecniche, diventa téchne [τέχνη].

Infatti la téchne secondo il sentire degli antichi Greci, era proprio un misto tra la tecnica (intesa come patrimonio nozionistico e competenza operativa) e rielaborazione personale; i due aspetti combinati conferiscono all’artista e all’opera che esso realizza il criterio dell’unicità.

Quali sono stati i percorsi personali e accademici determinanti per la tua formazione?

Dopo il Liceo Artistico, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Molto significativa per me è stata la collaborazione con un gruppo di amici, diventato ben presto un punto di riferimento all’interno della stessa accademia. Insieme studiavamo, facevamo ricerca, spingendoci oltre i canoni classici. Arrivammo così a costruirci un’indipendenza e un’identità intellettuale, che riscontrava nell’originalità e nella voglia di scoprire le caratteristiche della propria cifra stilistica.

Trasversalmente al percorso di studi accademico, come dicevo, ho avuto un grande interesse per la storia, l’arte e la filosofia, e ancora per l’esoterismo e l’alchimia.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Ho sempre cercato di attingere da ogni fonte possibile, nonché da ogni occasione di conoscenza, senza mai prescindere dal criterio della contaminazione come linea artistica di poetica. Tra gli artisti che mi hanno maggiormente influenzato, voglio ricordare sicuramente Paul Cézanne che personalmente ho ammirato per la propria concezione dell’arte: analizzare, scomporre e decifrare per sintetizzare ciò che era avvenuto nei secoli precedenti. È come se lui avesse operato un grande lavoro di decostruzione per categorizzare nuovamente il tutto. Per questo continua a essere per me un modello fondamentale e imprescindibile.

In alcune mie opere risulta molto tangibile poi l’influenza di Sebastián Matta per i suoi geometrismi architettonici; e per l’aspetto della concezione spazio-temporale contenuta nelle mie opere, faccio riferimento a Leonardo per il quale lo spazio era una dimensione atemporale e intrisa d’eternità.

Uno dei tratti distintivi della tua arte è l’utilizzo di una particolare tecnica mista su carta. In che cosa consiste?

Per realizzare le mie opere mi avvalgo della carta da pacco come supporto tecnico. Ai tempi della mia frequentazione presso l’Accademia di Belle Arti poiché, dovendo realizzare moltissimi schizzi e prove di disegno dal vivo, sono state innumerevoli le occasioni in cui si faceva un largo uso di questo tipo di carta.

Essa esercitò sin da subito su di me una grande fascinazione, perché riusciva a restituire il senso di tattilità caratteristico proprio del carboncino.

Con il passare del tempo, iniziai ad aver voglia di dipingere con i colori acrilici, ma chiaramente sorgeva il problema del mantenimento della resistenza del colore, dato il supporto impiegato.

Così ho avuto l’intuizione di utilizzare la stessa mestica di preparazione per la tela sulla carta da pacco. Grazie a questo accorgimento, non solo il carbone mantiene intatta quella sua tipica grossezza che ti permette di alleggerire o indurire il segno, ma in più avevo la possibilità di utilizzare il colore sia in maniera acquerellata che materica. A tutto questo si può aggiungere che la carta da pacco è un supporto tecnico economico e che consente di avere una certa velocità di esecuzione.

Utilizzando questo tipo di carta, è come se fossi nell’accademia di me stesso, intento a riprodurre, mediante innumerevoli schizzi, la rappresentazione che del mondo mi si fa avanti.

Che cosa provi nel momento in cui ti ritrovi dinanzi a quel foglio bianco sul quale è ancora tutto possibile?

Beh, come molti pittori spesso vado in crisi davanti a una tela bianca. A volte inizio a fare delle campiture bianche e molto larghe. Parto senza un’idea chiara, ma creo delle campiture che siano delle forme geometriche, che mi indirizzino verso la ricerca di una decostruzione prospettica.

Trovo in questo mio procedere per larghe campiture, un aiuto per affrontare il problema della tela bianca. Sì, perché una tela bianca contiene troppo.

Il mio approccio a essa cambia a seconda dello stato d’animo giornaliero. Capita molto spesso che i disegni affiorino alla mente in maniera inconscia e che io cerchi di fermarli. Non sempre ci riesco in realtà, perché a volte il passaggio è così effimero, quasi fosse la caduta di una cometa. Ma comunque, se non dall’interezza dell’immagine che mi attraversa, anche soltanto da un frammento, cerco di creare qualcos’altro, riplasmando ciò che la memoria mi restituisce. Generalmente la visione si fa avanti quando ho la mente libera e i pensieri riescono a fluire ininterrottamente.

E cos’è per te questa visione?

La visione è un incontro tra la mia dimensione interiore e la realtà esterna, e si concretizza in un tentativo di assimilazione e di emulazione delle due. La tela restituisce il mondo nella sua corporeità materiale, facendo da ponte tra essa e la sua trasposizione metafisica, che prende vita proprio nella mente.

In quali occasioni prediligi l’uso del bianco e nero e in quali il colore?

Non c’è un criterio univoco che si pone come parametro di scelta tra le due modalità. Sicuramente l’uso del bianco e nero è conveniente i termini di velocità e di praticità, essendo anche in linea con i miei intenti di studio e di ricerca. Se non si continua a ricercare, non ci si può evolvere. E per me, la realizzazione dell’opera, deve assolvere sempre alla duplice funzione della creazione e dello studio.

L’uso del colore è una scelta largamente diffusa tra gli artisti, un’altra modalità compositiva e d’espressione della tela che ha una valenza importante, avendo il potere di effondere una sorta di pace interiore nelle persone.

Da un punto di vista semantico le tue opere presentano vari significati. C’è un duplice gioco prospettico che dall’interno dell’opera si riverbera direttamente sull’osservatore. Nel susseguirsi di mutevoli significati, qual è la tua concezione della realtà?

Ho la caratteristica di interiorizzare molte informazioni. Ecco perché si riscontra questa multisfaccetatura prospettica.

Si parte da un’immagine unica, che poi si dispiega come i rami di un albero. Attraverso le regole della prospettiva lineare semplice, il cervello inizia a sdoppiare l’iniziale quadro prospettico che gli si presenta. Questo sdoppiamento è un processo continuo che devo ogni volta cercare di arginare, di contenere e modulare.

Non farsi travolgere da quest’inondazione è necessario, perché in alcuni casi, come è già accaduto, si giunge alla dissoluzione e alla distruzione dell’opera.

Ogni opera che realizzo, infatti, contempla in sé la possibilità del fallimento e della deriva.

Una recente iniziativa che ti ha visto direttamente coinvolto è stata “Dal trapassatoio”, un lavoro a quattro mani con lo scrittore Marco Vetrugno. Come hanno dialogato l’arte e la letteratura in quell’occasione?

La poesia di Marco mi ha colpito per il suo diretto mirare alla decostruzione della parola. Lui ha una grande risolutezza espressiva e lo ritengo tra i maggiori poeti italiani contemporanei. Nella sua poesia, ogni cosa passa attraverso il corpo e da un’ideale concezione metafisica; da una dimensione che dalle parti più profonde e remote della propria interiorità, si esplica all’esterno. È come se scrivesse con gli organi. La sua è un’operazione eccezionale, nel senso che è unica nel suo genere. I suoi testi hanno una logica consequenziale e tendente alla decostruzione, stessa attitudine che è possibile ritrovare in molte delle mie opere. Proprio per questa comune attitudine, posso dire che in quell’occasione, le nostre due arti hanno ben dialogato e non smettono di cercarsi reciprocamente uno scambio di battuta.