Oltre il confine

La grande menzogna della meritocrazia spiegata con “Mastro Don Gesualdo” di Verga

di Rosaria Scialpi

La meritocrazia è una menzogna e in questo articolo lo si proverà a spiegare attraverso la lettura del romanzo Mastro Don Gesualdo dello scrittore siciliano Giovanni Verga, del quale, proprio a settembre, ricorre il centottantaduesimo anniversario della nascita.

In tempo di elezioni e di tribuna politica, la parola ‘meritocrazia’ è forse una di quelle a cui si fa maggiormente ricorso. Eppure, essa non è che uno specchietto per le allodole, un modo per accalappiare voti, da destra a sinistra, pungolando l’orgoglio dell’elettorato italiano, in particolar modo del ceto medio.

Il termine, anzitutto, è un calco dall’inglese, il quale, a sua volta, fa ricorso alle lingue classiche, fondendo insieme la parola latina meritum e quella greca cratos. Già a primo impatto, dunque, senza nemmeno far ricorso al dizionario Treccani, del cui supporto ci si avvarrà innanzi, salta immediatamente all’occhio che l’idea alla base di questa parola è che il potere e la sua gestione spetterebbero ai più meritevoli.
Volendo essere più precisi, Treccani ci fornisce la seguente definizione:

<<Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro>>

Nella storia della letteratura, però, questo termine ha fatto il suo ingresso con un’accezione negativa. Nel 1958, infatti, venne dato alle stampe il romanzo distopico The rise of meritocracy di Michael Young.
Ambientato nel 2033, il romanzo mette alla luce come tale sistema meritocratico, che dovrebbe alimentarsi dunque su meriti personali e non su criteri plutocratici, in condizioni di disparità economica, renda i talenti non solo non rintracciabili ma neanche sviluppabili con la stessa rapidità dei più abbienti, innescando peraltro così quel processo che passa storicamente sotto il nome di “produttismo competitivo”.
Ma il passo da distopia a utopia, come abbiamo modo di constatare quotidianamente, è stato breve.

Fatte queste dovute precisazioni, ci si può ora inoltrare, con l’ausilio del romanzo di Verga e di esempi pratici, nella ricerca dei motivi per cui la meritocrazia alimenti e sia alimentata dal capitalismo, del quale apparentemente sembrerebbe essere l’antitesi, e del perché rappresenti una menzogna, forse la peggiore che ci sia mai stata detta.
L’introduzione del concetto di meritocrazia, spinge a pensare che sia giusto concentrare nelle mani dei “meritevoli”, cioè di coloro che si distinguono per l’impegno, l’uso della propria intelligenza applicata alle propensioni personali, i propri talenti e la costanza, il potere.

Un esempio pratico e facilmente comprensibile di ciò potrebbe essere il seguente: fra due persone all’incirca coetanee, laureatesi nel medesimo corso di laurea e ateneo di appartenenza e a parità di voti, applicando la logica della meritocrazia, andrebbe scelta quella che mostra aver conseguito un numero maggiore di attestati e certificazioni, in modo particolare, se si vuole rendere lo scenario quanto più realistico possibile, afferenti alla conoscenza di almeno una lingua straniera con un livello pari o superiore al C1 e alla conoscenza degli strumenti informatici.

A primo acchito, questo procedimento potrebbe apparire come un criterio di eguaglianza.
Ma, come insegna Aristotele, eguaglianza e equità non sono sinonimi. Oltre alla variabile economica, ve ne sono tantissime altre che entrano in gioco e premono sul singolo studente già gravato dal peso della disparità economia, quali ad esempio: condizioni di salute precarie, necessità di lavorare parallelamente agli studi, clima famigliare non disteso, mancanza di conoscenze pregresse e quindi maggiori difficoltà nello studio…

Ad ogni modo, fra i nostri due candidati, quello che, oltre ad essersi laureato, conseguendo il titolo con ottimi risultati, ha potuto fare ricorso a una serie di certificazioni e attestati è, con alta probabilità, colui il cui reddito è nettamente maggiore. I corsi per l’acquisizione delle certificazioni sopra citate, infatti, nella maggior parte dei casi, possono essere seguiti solo dietro pagamento. Risulta evidente, in questo caso, che il criterio della meritocrazia fallisce. Nascere e crescere in una famiglia meno abbiente determina il corso della nostra evoluzione e non è un merito, ma il risultato della benevolenza del fato.
Il nostro punto di partenza, la nostra posizione economica, il luogo in cui cresciamo e le persone che lo abitano sono condizionanti e spesso responsabili della nostra diversa collocazione nella società e della fatica che dovremo sopportare per restringere l’ampiezza della forbice sociale. Inoltre, anche quando si riesca in questa titanica impresa, il rischio è quello di rimanere ai margini, di essere un outsider nel mondo d’origine e in quello di approdo e nessuno meglio di Mastro Don Gesualdo può dimostrarlo.

Perennemente a metà fra due mondi e mai al loro interno, il nostro Gesualdo Motta diviene sì un signore, dopo aver accumulato una cospicua fortuna, acquisendo così il titolo di “don”, ma è e sarà sempre un parvenu dalle mani rovinate dal troppo ed estenuante lavoro. Accanto al “don” permane quindi l’apposizione “mastro”.
La sua scalata lungo la piramide sociale gli permette sì di sposare l’aristocratica Bianca, facendosi per di più carico dell’onta ricaduta su di lei e di una figlia non sua, ma agli occhi della moglie, del suo circolo di amici e parenti e successivamente della figlia Isabella e di suo marito, egli rimane un rozzo, un villano da esiliare ed evitare con la stessa attenzione con cui si cerca in tutti i modi di non contrarre la peste. Quel mondo che ha sempre guardato con ammirazione e un briciolo d’invidia lo rifiuta. Riprova di ciò è il muro di incomunicabilità e incomprensione sorto fra lui e Isabella, verso la quale egli pure nutre amore, ma è contemporaneamente schiavo del desiderio di essere considerato da lei un padre e conseguentemente di essere riconosciuto come individuo appartenente al suo mondo, inteso come personale di affetti, ma soprattutto come status.

Mastro Don Gesualdo

Allo stesso tempo, la servitù non riesce più ad avvertirlo come membro del proprio mondo, ma anzi lo addita come traditore del suo sistema valoriale. Ciononostante, anche ai suoi stessi occhi egli non apparirà mai totalmente un signore al quale giurare cieca fedeltà. A causare questa insoddisfazione è il classismo introiettato in Gesualdo sin da ragazzo, quando egli era ancora “solo” un muratore, e con il quale egli stesso si osserva e si disprezza. Lo stesso disprezzo, una volta arricchitosi, viene poi riversato dal mastro, ormai don, nei confronti degli strati sociali inferiori al suo, persino verso quei figli avuti dalla relazione adulterina con Diodata. Gesualdo passa così dal subire il pregiudizio sociale ad applicarlo, rimanendone per sempre vittima e schiavo.

Gesualdo Motta, che ha strenuamente lottato per l’ascesa sociale, come si può evincere dalla seguente citazione, <<le terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca>>, è totalmente alieno a quel mondo nuovo, in cui riesce a malapena a fare capolino e dal quale viene perennemente allontanato, a quello da cui è partito e che lo ha costretto a sudare molto più degli altri per rimanere a galla e a se stesso. Egli non si conosce e non si riconosce. Non può farlo. È sospeso fra due gradini e ha perso i suoi riferimenti morali. Il mondo a cui aspira di fare parte dovrebbe riconoscergli i suoi meriti, ma lo fa solo apparentemente e per il proprio tornaconto, permettendogli di diventare uno dei tanti ingranaggi che manda avanti il sistema, ma non di esserne mai ritenuto parte integrante. D’altronde, ogni suo tentativo di risultarne degno, pur avendo mostrato a tutti impegno, devozione per il suo lavoro e talento, non solo comporta uno sforzo immane da parte sua, sforzo che risulta maggiormente evidente ai lettori più attenti che al protagonista, ma risulta goffo e inutile. Il sistema ne osteggia, semmai, la serenità.  Non servirà, se non ad accumulare beni lentamente e con lo sfinimento fisico e spirituale, l’intuizione profetica di costruire mulini a vento (Singolare ed eloquente la scelta dell’edificazione proprio dei mulini a vento: Gesualdo è l’artefice delle sue stesse illusioni, costruisce con le sue mani quei mulini a vento contro i quali dovrà combattere e che sempre lo vorranno vinto).

Bianca Trao, uno di questi mulini a vento, gli farà promettere in punto di morte di non risposarsi. Se ciò potrebbe sembrare una forma di protezione nei confronti dell’uomo che le ha consentito di risollevarsi dalla decadenza in cui era sprofondata la sua famiglia, in realtà può essere letta come un’ulteriore ultima ferita e punizione inflitta al povero mastro, che pure di meriti, almeno in ambito economico, ne ha: Gesualdo non potrà mai sposare alcuna donna, memore del patto fatto con la donna che l’avvinto con la speranza -poi disattesa- di un domani migliore legato ai vantaggi che il suo titolo gli avrebbe recato.  Alla plebe non viene concessa nemmeno l’ultima minima parvenza di felicità nemmeno a fronte del suo essere “meritevole”. Non c’è riscatto per Gesualdo come non ce n’è per chi, convinto dalla menzogna capitalista della meritocrazia, ne sposa le cause e se ne fa portavoce, rilegando la propria esistenza a un cantuccio fabbricato in un clima di incertezze e sciocca abnegazione che lo costringe a vivere per lavorare, capovolgendo il paradigma originario e negando la propria condizione di umanità, nutrendosi della vana speranza di essere ammesso alla tavola dei Trao come loro pari.

In fondo, la meritocrazia è una menzogna creata da chi, seduto su un baldacchino d’oro, deve convincere gli altri a mantenerlo in equilibrio per non rischiare di cadere. Egli innesca così la competizione, promettendo loro che, grazie alla propria dedizione, potranno un giorno essere al suo posto e raccogliere i frutti del duro lavoro, raggiungendo così la fantomatica agognata felicità, che in un mondo capitalista è sempre legata al lavoro e al denaro.
Gli uomini che sorreggono il baldacchino, però, non sanno che colui che, apparentemente colto da un attacco di magnanimità, promette loro un futuro migliore basandosi esclusivamente sui loro meriti e non alla ricchezza, in realtà ha le dita incrociate dietro la schiena.