Oltre il confine

La maschera della Morte Rossa. L’uomo e la paura.

Ruben Alfieri

EDGAR ALLAN POE (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) 

Inevitabilmente quanto sta accadendo nel mondo riporta alla mente le storie in cui si è già letto di contagi, o visto, come nel pluri-citato “Contagion”, film del 2011 diretto da Steven Soderbergh, oppure nel libro “Cecità” di José Saramago (1995), o nel Classico e più antico “Decamerone” di Giovanni Boccaccio[1]. In tutte e tre le opere uno dei temi fondamentali è la disgregazione della società, che solo nel libro di Saramago non è la conseguenza al morbo ma una delle cause, che nel suo climax ha portato alla malattia, l’indifferenza. L’indifferenza, che nel Decamerone ha provocato il proemio: “Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti”, e primo stratagemma, anticamera, della paura.

Essere sepolti vivi è, senza dubbio, il più terribile tra gli orrori estremi che siano mai toccati in sorte ai semplici mortali. Che sia avvenuto spesso, spessissimo, nessun essere pensante vorrà negarlo. I limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nella migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può dire dove finisca l’una e cominci l’altra?”

La sepoltura prematura (1884 – The Philadelphia Dollar Newspaper)

Un autore che ha trovato grande spazio nella propria narrativa per raccontare la paura è Edgar Allan Poe, lo scrittore gotico per antonomasia, che non ha certo bisogno di grandi preamboli. Sarebbe però opportuno precisare che lo stile gotico per cui è maggiormente conosciuto è stato adottato dall’autore per assecondare i gusti del pubblico, poiché perennemente in miseria e costretto a campare dei guadagni della propria scrittura, che in gran parte provenivano dalla pubblicazione dei suoi racconti in riviste differenti, settore editoriale particolarmente fiorente al tempo, seppur precario. Oltre che come scrittore in prosa, Poe si distinse per le poesie, come critico letterario e per alcuni saggi in cui esponeva anche le sue teorie letterarie, come ne “Il principio poetico”; e si cimentò in diversi generi altrettanto riusciti, come la satira, i racconti umoristici e le bufale, utilizzando l’effetto comico e l’ironia come ariete contro il conformismo culturale dell’epoca.

I racconti del terrore di Edgar Allan Poe non sembrano però avere il fine di spaventare il lettore o di affascinarlo attraverso fantasiose immagini orrorifiche, ma di approfondire i turbamenti dell’animo umano, calando i personaggi in situazioni che seppur surreali rievocano la realtà pungente delle inquietudini. Alla realtà irrazionale del sentimento quindi combacia l’irrealtà dell’incubo, e l’angoscia del lettore, come l’attrazione per tali racconti, derivano dalla capacità dello scrittore di cogliere e rappresentare i suoi sentimenti più cupi.

La maschera della Morte Rossa (1842 – Graham’s Magazine) [2]

“Per lunga e lunga stagione la Morte Rossa aveva spopolato la contrada. A memoria d’uomo non s’era mai veduto una peste così orribile, così fatale! A guisa del Vampiro, sua cura e delizia, il sangue, — la rossezza e il lividore del sangue. Negl’infelici côltine si manifestava dapprima con dolori acuti, con improvvise vertigini; e dappoi un sudare e trasudar copioso, donde lo sfinire è il dissolversi infine di tutto l’essere. E chiazze porporine su la pelle, soprattutto sul volto delle vittime, facean sì che queste fossero schifate e fuggite da tutti, né soccorso o alcun segno di simpatia le consolasse. — Invasione, progresso ed effetti del male erano una cosa stessa, l’affare d’un momento.”

Edgar Allan Poe non apprezza l’allegoria, ossia il racconto simbolo, che nella sua interezza fa riferimento a qualcos’altro, come un racconto biblico, né condivide l’idea di un racconto che si presti facilmente a una spiegazione. L’arte in una storia deve celare il significato sotto una lieve superficie. Ogni sentimento e ogni idea devono essere accuratamente selezionati per provocare un singolo effetto.

Ne “La maschera della Morte Rossa”, Edgar Allan Poe, riassume in poche pagine, attraverso una sorta di favola macabra, il comportamento di un principe e dei suoi cortigiani nei confronti di un pericolo devastante, che sta portando l’intero regno gradualmente alla morte. Radunando un migliaio di eletti, il principe si taglia fuori dalla realtà chiudendosi nel proprio castello tra feste e intrattenitori.

“Innanzi questo flagello il principe Prospero rimanevasi imperturbabile; anzi si mostrava felice, sagace, intrepido. E quando e’ vide piucchè a metà spopolate le proprie terre, convocò un migliaio circa de’ suoi fidi e amici, tutta gente piena di vita e di cuore baldo, la eletta dei cavalieri e delle dame della propria corte; e in compagnia sì cara ricovrò in un solitario palazzo, sito in una delle molte sue abbazie o feudali castelli. — Era questo un edifizio vasto e magnifico, una creazione da principe, d’un gusto singolare e, nondimeno, grandioso: un muro spesso ed alto cingevalo d’ogn’intorno, nel quale si aprivano grosse porte di ferro. Entrativi, usando del fuoco e di buoni martelli, saldarono ogni serratura; e là si credettero al sicuro. Risolvettero di rendersi forti contro gli assalti improvvisi di esterne paure e di chiudere così ogni uscita alle frenesie del di dentro. Larghe provviste immisero nell’abbazia; e, grazie a precauzioni tanto sottili, i cortigiani poterono lanciare la sfida al fiero contagio. E, chi stava al di fuori, s’acconciasse come meglio potesse; intanto, follia l’affliggersene, il darsene pensiero. Avrebbe il principe provveduto a tutti i mezzi di piacere.”

Tanto più la peste infuria contro il resto della popolazione, rastrellando il suo regno, tanto più il principe si ingegna per rendere le feste interessanti, come a rinchiudersi in uno spettacolo onirico che possa distrarlo dalle sue preoccupazioni. Al sesto mese di contagio, infatti, descritto come il periodo in cui “la pestilenza incrudeliva d’ogn’intorno nella sua più fiera rabbia”, il principe Prospero (chiamato così forse per una sorta di caricatura simbolica), decide di organizzare un magnifico ballo in maschera, per alleviare i pensieri dei suoi ospiti.

Durante la descrizione delle sette stanze decorate per la festa, compare un enorme orologio d’ebano capace di emettere un suono “scrosciante, profondo e superlativamente musicale, ma di note tanto singolari e di tale energia che, a ogni ora, i musici dell’orchestra erano obbligati d’interrompere un istante i loro accordi, così per ascoltare la misteriosa musica delle ore.” Nel momento in cui gli ospiti si fermano, disturbati, quasi intimiditi dal suono dell’orologio, danno sfogo a reazioni strane, “quasi rapiti da una meditazione prepotente o da un sogno delirante”, come se divertirsi fosse l’unico appiglio per non cadere con la mente nella consapevolezza di una disfatta inevitabile. A ogni rintocco, infatti, i festaioli si ripromettono di non lasciarsi più andare alle reazioni di un’ora prima, ma “passati appena i sessanta minuti, che comprendono i tremila seicento secondi dell’ora scomparsa, ecco i nuovi suoni dell’orologio fatale, ed ecco gli stessi timori, i brividi stessi, le stesse fantasticherie negli astanti.”

L’unico a non tenere conto dell’effetto dei rintocchi sembra essere il principe, compiaciuto del nuovo mondo colorato che ha creato nel suo castello e soddisfatto dell’aspetto delle maschere, descritte come bizzarre e grottesche, che roteano magicamente tra le sale; finché allo scoccare della mezzanotte dodici rintocchi prolungano l’immobilità “ansiosa e crudele”, la quale fa sì che finalmente i cortigiani si accorgano di una maschera insolita che fino ad allora aveva girato tra loro indisturbata. La maschera ha le fattezze di un volto esasperato dalla peste.

L’effetto immediato di quest’aspetto sugli ospiti è di disappunto, poi orrore e disgusto, man mano che la maschera prosegue risoluta e solenne lungo le sette stanze senza curarsi delle attenzioni di chi le sta intorno, finché non raggiungono lo spavento e il terrore. All’insolenza di quest’essere, interpretato dal principe come uno scherzo oltraggioso, come a ricordare a cosa i rifugiati si stessero negando, questo urla iracondo affinché l’entità sotto la maschera venga arrestata e giustiziata, ma “per effetto d’un terrore vago, misterioso, indefinibile, che l’audacia insensata della maschera aveva sparso su tutta la società, non si trovò qui più uomo che valesse a porgli addosso le mani, e frenarlo; per cui l’essere strano non trovando ostacolo alcuno innanzi a sé, scivolò a due passi della persona del principe.”

I cortigiani si accalcano sui muri e il principe, esasperato dalla vergogna della sua stessa paura, si getta furibondo contro la maschera, morendo poco prima di poterla assalire. “Allora, invocando il coraggio violento della disperazione, una gran folla di maschere precipitossi d’un tratto nella camera nera, e afferrando l’incognito che, simile a gigantesca statua, perdurava ritto ed immobile nell’ombra dell’orologio di ebano, e’ sentirono come soffocarsi da un terrore senza nome: e qui irreparabilmente si accorsero, che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica, che essi stringevano con sì violenta energia, non esisteva sostanza di forma alcuna.”

Uno dei sentimenti che colpisce principalmente i personaggi delle storie di Poe, che è appunto il più comune tra gli uomini, è la paura della morte, simbolo del vuoto e dell’incertezza, dell’irrimediabilità del tempo; espressa dall’autore come una colpa insopprimibile o con la paura di essere sepolti prematuramente, o in questo caso, espressa metaforicamente sotto forma di una pestilenza gravissima e dilagante, a cui è impossibile porre rimedio, se non isolandosi e rinchiudendosi ermeticamente, cercando di distrarsi, di dimenticare la fatalità del destino, che non lascia scampo, come i rintocchi dell’orologio d’ebano, che suonando la mezzanotte aprono la strada alla maschera della Morte Rossa.

Le mie cupe fantasie si dissolsero in sorriso
Nel vedere il nero uccello così pieno di contegno.
«Anche se non hai la cresta» dissi «non sei certo vile,
Bieco e oscuro e vecchio corvo dalle sponde della notte…
Dimmi come sei chiamato nell’Inferno e nella notte!»
Disse il corvo: «Mai più».

Il corvo (1845 – New York Evening Mirror)

[1] La data di stesura dell’opera è incerta. Il filologo Vittore Branca ritiene sia stato scritto tra il 1349 e il 1351, successivamente all’anno della peste nera. Secondo la tesi di Giuseppe Billanovich potrebbe essere stato scritto tra la prima data e il 1353. La prima pubblicazione potrebbe essere stata a Napoli, nel 1470, tipografo del Terentius.

[2] Testo tradotto da Baccio Emanuele Maineri (1869).

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