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L’adolescenza nell’arcipelago: Margareth Mead alle isole Samoa

Lorenzo Plini

Pronunciando la parola adolescenza ci balza immediatamente alla mente quella fase della nostra vita compresa grosso modo fra i 12 e i 18/19 anni d’età, un periodo soggettivo vissuto nei più svariati modi e questo ne fa un’esperienza variopinta. Nonostante ciò, nell’immaginario collettivo l’adolescenza viene considerata comunemente come un periodo difficile, caratterizzato per lo più da conflitti interiori, dalla ribellione verso l’autorità genitoriale e da cambiamenti fisici e psicologici nell’individuo. Una fase di transizione – d’altronde il verbo adolescĕre  significa proprio crescere – che conduce sino all’età adulta, e che ha finito per attirare l’attenzione di diverse discipline scientifiche, tra cui l’antropologia.

Nata fra il Settecento e l’Ottocento, l’antropologia studia l’uomo e i suoi comportamenti all’interno di vari contesti sociali, con un particolare sguardo verso quei popoli che noi consideriamo come primitivi. Ma come si approccia materialmente l’antropologia allo studio dei comportamenti dell’uomo? Diversamente dal biologo che ha nel laboratorio il suo regno, luogo dove può studiare e comprovare le sue teorie, l’antropologo deve necessariamente recarsi sul posto se vuole studiare una determinata popolazione. Ed è quello che fa la statunitense Margareth Mead (1901-1978) per dimostrare la sua teoria sull’adolescenza. Allieva dell’antropologo Franz Boas – uno dei pionieri dell’antropologia moderna – lei si colloca all’interno di una corrente di studi definita come studi di cultura e personalità, e nel 1926 parte per le isole Samoa, un arcipelago nell’Oceano Pacifico meridionale: li vi vive un popolo primitivo, che parla una lingua completamente diversa da quelle di ceppo indoeuropeo, con una religione e un organizzazione sociale completamente diversa.

Coming of age in Samoa viene pubblicato nel 1928, frutto dei nove mesi passati dalla Mead a contatto diretto con la popolazione samoana, in particolare con le giovani adolescenti. Il suo obiettivo era quello di dimostrare che l’adolescenza non deve per forza essere un periodo difficile, pieno di tensioni e conflitti e che questo – come del resto molti comportamenti che noi consideriamo immutabili e propri della razza umana – dipende dal contesto sociale. Per questo si reca a studiare questa popolazione, facendo un confronto fra la situazione degli adolescenti in quella società e gli adolescenti nella società americana a lei contemporanea, caratterizzata dall’isolazionismo politico, dal proibizionismo e che di li ad un anno avrebbe conosciuto la grande crisi economica del 1929.

Questo confronto su cui si basa il libro fa si che chi lo legge si trova di fronte alla prova che ci sono diverse vie, diversi modelli di civilizzazione, difatti uno degli intenti della Mead è quello di mettere in discussione la società nella quale si vive. Si perché alle Samoa il giorno di nascita di una bambino perde immediatamente d’importanza, non vengono festeggiati compleanni e il valore che noi diamo all’età esatta li viene sostituito da un’età relativa. I bambini samoani passano con la propria famiglia i primi sei o sette anni di vita, poi vengono avvicinati al gruppo dei loro coetanei e contemporaneamente viene affidato a ognuno di loro – con uno sguardo particolare alle femmine – un bambino più piccolo verso cui hanno una responsabilità completa. Durante il periodo dell’adolescenza le donne finiscono per occuparsi dei lavori domestici e dei bambini del loro gruppo familiare, mentre gli uomini si specializzano in un’attività, che può essere ad esempio la caccia o la pesca. In generale Margareth Mead ci descrive la società samoana come relativamente semplice e omogenea che cambia così lentamente da apparire praticamente immobile generazione dopo generazione. Gli abitanti di quell’arcipelago vivono una vita piuttosto leggera e superficiale, in una civiltà dove la guerra – e tutto quello che comporta – non esiste più da tempo, dove la morte di un membro della propria famiglia è l’unico motivo per cui si versano delle lacrime, dove esiste un’unica religione e dove vi è un unico modello di moralità da seguire. In questo contesto gli adolescenti samoani non presentano le caratteristiche di tensione degli adolescenti americani.

Allora, che cos’è che rende l’adolescenza un periodo della vita così problematico? Margareth Mead individua la risposta nell’ambiente sociale. All’opposto della società samoana, quella americana della fine degli anni ’20 si presenta come una società che muta velocemente, eterogenea e variopinta. I giovani adolescenti americani si trovano di fronte a una miriade di idee diverse, di modelli diversi, molto spesso in contrapposizione gli uni con gli altri, e i conflitti nascono dalla convinzione che ogni scelta che intraprendono per la loro via rivesta la massima importanza. Margareth Mead, già in quegli anni, aveva compreso come l’adolescenza non sia semplicemente un periodo di cambiamento solamente fisico ma anche e soprattutto mentale ed emotivo, e che la tensione che si crea all’interno di una società viene assorbita dagli adolescenti.

Le idee espresse da Margareth Mead in questo libro sono state oggetto di critiche, tanto da aprire una controversia con l’antropologo Derek Freeman. Alle isole Samoa fra il 1940 e il 1943, egli sostiene che i Samoani – consapevoli di essere studiati – avevano ingannato (scherzosamente o meno) la Mead su alcuni aspetti della loro vita, in particolare legati proprio all’adolescenza. Da qui un dibattito interno al mondo degli antropologi, che solamente molti anni dopo la morte della Mead è arrivato a una conclusione: dalle note degli scritti originali di Coming of age in Samoa si comprende come Margareth Mead era cosciente degli scherzi e degli inganni dei samoani e di aver tenuto conto di questo nella formulazione della sua teoria sull’adolescenza.