Interviste Lo scenario

Moda, società e ambiente: come ricostruire un mondo più equo, solidale e sostenibile?

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Lucia Vitale

Con l’avvento della pandemia sembra esserci maggiore consapevolezza in merito alle discriminazioni sociali e alle problematiche ambientali presenti nel mondo. Il COVID, infatti, ci ha dimostrato che la distruzione della Terra, per mezzo dell’inquinamento e della deforestazione, la crisi climatica e la crisi sanitaria hanno una causa comune: lo sfruttamento umano e delle risorse naturali del pianeta.

Quest’anno, in occasione della Giornata mondiale del commercio equo e sostenibile (celebrata l’8 Maggio) è stata promossa la campagna internazionale #Build Back Fairer da parte dell’organizzazione no-profit World Fair Trade Organization.
L’organizzazione è costituita da ben 355 imprese sociali dislocate in svariate aree del mondo, le quali hanno un impatto rilevante su circa un milione di persone, di cui il 74% è rappresentato da donne.
All’interno del loro statuto, il WFTO invita i governi a rafforzare le legislazioni mondiali per ridurre le disuguaglianze sociali e sviluppare un modello economico e agricolo che rispetti l’ambiente e difenda i diritti dei piccoli coltivatori, degli artigiani e degli operai che abitano le aeree più fragili del pianeta.

Molti sono i settori al centro di numerose polemiche, tra queste il settore della moda e, in particolar modo, l’industria di fast fashion.

La Fast Fashion

L’espressione inglese fast fashion si riferisce alla velocità con cui le aziende della moda immettono i loro prodotti sul mercato. L’espressione appare, per la prima volta, in un articolo della versione cartacea del New York Times del 31 dicembre 1989. Il pezzo si intitola Fashion; Two New Stores That Cruise Fashion’s Fast Lane scritto dalla giornalista Anne-Marie Schiro.
Nell’articolo, si parla di due nuovi negozi d’abbigliamento nella Lexington Avenue di New York: l’azienda dal finto tocco francese Compagnie Internationale Express e l’azienda spagnola Zara International, la quale possiede già numerose filiali in Europa.
La giornalista afferma che entrambe le aziende parlino la stessa lingua: “It’s a language understood by young fashion followers on a budget who nonetheless change their clothes as often as the colour of their lipstick. Ciò significa che questi due nuovi negozi hanno permesso a molte giovani donne amanti della moda di acquistare nuovi vestiti come se fossero dei prodotti di make-up. Inizia dunque l’era del fast fashion e dei vestiti a basso costo. 

L’azienda Zara è, su molti fronti, il caso emblematico di fast fashion (Treccani 2012), poiché negli anni ’80 acquisisce un successo internazionale come pioniera di un nuovo sistema di produzione e di distribuzione della merce, il quale richiede un forte coordinamento tra le fasi di progettazione, produzione e distribuzione.
A questo riguardo, nell’articolo sopracitato sono riportate le parole di Juan Lopez a capo della filiale di Zara negli Stati Uniti: “The stock in the store changes every 3 weeks… It takes 15 days between a new idea and getting it into the stores.” Ciò vuol dire che nel negozio arrivano nuovi capi d’abbigliamento ogni 3 settimane, un tempo brevissimo se paragonato al precedente sistema del prêt-à-porter basato sulle collezioni stagionali.
Tali tempistiche sono rese possibili grazie a un nuovo sistema di produzione e distribuzione, il quale prevede solo 15 giorni per l’individuazione di un nuova moda, la realizzazione dei modelli, la produzione industriale dei capi d’abbigliamento e la loro immissione sul mercato.

È l’inizio di una nuova era per il settore della moda ma anche di un nuovo fenomeno culturale: lo shopping come forma di svago caratterizzante soprattutto i Paesi occidentali.
Gli acquirenti di fast fashion sono eterogenei quindi non è più solo una questione legata alla crisi economica, la quale ci ha condotti all’acquisto di abbigliamento a basso costo, bensì si tratta anche di un nuovo modo di vestire e di concepire il consumo.

Chi realizza i nostri vestiti?

Ciawi, Bogor, West Java, Indonesia
Foto di Rio Lecatompessy su Unsplash

Secondo il recente sondaggio The State of Fashion 2021, condotto da BoF-McKinsey, la pandemia ci ha reso più consapevoli delle ingiustizie sociali all’interno della filiera produttiva delle industrie della moda. 
Le polemiche riguardano le pessime condizioni di lavoro degli operai, ad esempio, all’interno dei magazzini e dei centri di logistica e la mancanza di interventi mirati a un loro miglioramento.
Inoltre, i consumatori chiedono ai brand della moda di dimostrare un maggiore impegno sociale. I dati ci dimostrano che la Generazione Z (i nativi digitali tra il 1997 e il 2012), equivalente al 40% dei consumatori nel 2020, appare sui social come la categoria più attenta a tali tematiche.
Il sondaggio, condotto da McKinsey nell’agosto 2020, rileva che il 66% dei consumatori vorrebbero evitare o ridurre l’acquisto di capi d’abbigliamento prodotti da quelle aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori all’interno dei suoi stabilimenti e di quelli dei suoi fornitori.

Tuttavia, è chiaro che tra le opinioni dei consumatori e le decisioni d’acquisto continua a persistere un divario: come attuare delle scelte responsabili se la maggior parte dei brand non pubblica, ad esempio, una lista ufficiale che includa anche tutti gli stabilimenti terzi dislocati nel mondo?
I consumatori potranno compiere delle scelte consapevoli solo nel momento in cui tutte le fasi di produzione e distribuzione della merce appariranno più trasparenti.
A questo proposito, alcune proposte di legge in materia di diritti umani e difesa dell’ambiente sono già in fase di discussione in Commissione europea a partire dall’ottobre 2020. Mentre, il governo tedesco sta lavorando al Lieferkettengesetzt che mira a proteggere i lavoratori all’interno della filiera produttiva.

Quanto inquina il settore della moda?

L’inquinamento ambientale è l’altro tasto dolente dell’industria della moda. Secondo un’inchiesta di Greenpeace, La moda a un bivio del 2018, lo spreco di tessuti tessili è il problema ambientale più grande da affrontare.

Phnom Penh, Phnom Penh, Cambodia.
Foto di Francois Le Nguyen su Unsplash

I principi dell’economia circolare, cioè basata sulla produzione e il consumo di beni destinati a essere reimpiegati (Treccani 2018), sono considerati dall’industria della moda e dai governi mondiali la soluzione migliore per arginare il modello di consumo “usa e getta” presente nella nostra società.
Eppure, secondo l’associazione, un sistema che sia basato sul mero riciclo è una soluzione controproducente poiché, rimuovendo il senso di colpa dai consumatori, indurrebbe alla crescita degli acquisti di capi d’abbigliamento che, per la stragrande maggioranza, sono prodotti in poliestere.
Secondo l’indagine Pulse of the Fashion Industry 2017, condotto da Global Fashion Agenda, Boston Consulting Group e Sustainable Apparel Coalition, entro il 2030 si stima il raddoppio dell’impiego di poliestere all’interno delle industrie tessili.
A questo punto, Greenpeace si chiede se riciclare tutti i capi in poliestere, ammesso sia possibile, rappresenti la soluzione ai problemi ambientali.

Ma quanti capi d’abbigliamento vengono riciclati? In Unione Europea, l’80% degli indumenti a fine vita viene smaltito assieme ai rifiuti domestici. In verità, il riciclo di cui si parla nelle industrie della moda non riguarda i tessuti tessili bensì la produzione di ulteriori tessuti in poliestere, attraverso il riciclaggio delle bottiglie di plastica in PET. Così facendo le industrie evitano di affrontare i problemi legati all’uso di poliestere, ossia la sua origine da fonti fossili e il suo contributo alla contaminazione da microplastiche degli oceani.

Nella ricerca Moda a un bivio, Greenpeace prende in considerazione le iniziative di molteplici aziende d’abbigliamento e di calzature impegnate nell’ambito dell’eco-sostenibilità tracciando una nuova rotta per l’industria della moda, che prevede di migliorare il design dei capi per allungarne la vita; rallentare il flusso di nuovi materiali nella fase produttiva; preferire ai materiali sintetici quelli biologici derivanti dal commercio solidale (consiglio che va, soprattutto, ai marchi con maggiori capitali.)

Il tutto, però, dovrebbe essere maggiormente regolato e rafforzato da nuove legislature che mirino a facilitare il lavoro di tutte quelle persone che vorrebbero dare il loro contributo per un mondo più equo, solidale e sostenibile.

Di seguito, l’intervista al collettivo Le Moire, recentemente nato e composto da giovani donne pugliesi appassionate di sartoria, con cui discuteremo del loro lavoro e del loro punto di vista in relazione alle varie problematiche dell’industria della moda.

Sul sito artigianoinfiera.it è possibile visualizzare in anteprima la capsule collection Le Moire.

1) Il collettivo Le Moire prende ispirazione dalla tradizione del Mediterraneo, in quanto ne riprende i colori e le forme assieme all’uso di un antichissimo strumento, il telaio, per realizzare degli inserti rimovibili da applicare ai loro capi. Come mai avete deciso di creare questi inserti? Esistono delle motivazioni che vanno ben oltre il fattore estetico?

L’idea è nata partendo da due principi che caratterizzano il fast fashion e a cui noi come collettivo ci opponiamo: la standardizzazione dei capi che troviamo quotidianamente nei negozi e la sovrapproduzione che caratterizza l’industria della moda.

Per questo motivo, abbiamo pensato di progettare degli inserti rimovibili e intercambiabili che possano dare personalità e unicità agli outfit delle nostre clienti.

Così, ad esempio, una stessa manica può essere applicata su diversi top basic, in modo tale da avere più modelli con pochi pezzi, lasciando alla cliente la scelta di come combinarli in base al proprio gusto.

2) Nell’ambito del fast fashion, il tempo che intercorre tra l’ideazione degli abiti e la loro immissione sul mercato è di circa due settimane. Quali sono, invece, le tempistiche dei prodotti sartoriali? 

Gli abiti sartoriali hanno sicuramente tempistiche più lunghe rispetto al mondo industriale della moda, ciò che cambia è il processo lavorativo.
Le tempistiche dei nostri abiti seguono quelle di tessitura e sartoria. Realizzare un tessuto a telaio comporta una serie di passaggi manuali che partono dalla progettazione, per passare alla sistemazione dell’ordito sul telaio, fasi basilari per ottenere un buon tessuto, per poi, infine, alla tessitura.


L’ordito, infatti, rappresenta la “colonna portante” dell’intero tessuto, a differenza della trama che è essenziale per il disegno che si creerà.
Anche l’aspetto sartoriale è molto lento poiché dalla fase di creazione del cartamodello fino al taglio e alla confezione degli abiti si seguono tempi scanditi a misura d’uomo, pertanto non legati ai macchinari industriali a catena di montaggio.


Per noi artigiane è più importante realizzare capi di qualità che durino nel tempo e soddisfino le esigenze delle clienti.

3) Pensate che possano convivere, oggi, nel panorama della moda mondiale il fast fashion e l’artigianato locale oppure credete che debbano essere attuati alcuni cambiamenti? In che misura sono importanti le azioni compiute dai consumatori, dalle aziende e dai governi?

Il fast fashion e l’artigianato sono realtà diametralmente opposte. Lo notiamo subito dalle caratteristiche che contraddistinguono questi due mondi:

F.F: velocità di produzione, serialità dei capi, scarsa qualità dei materiali, sfruttamento della manodopera (soprattutto femminile e infantile) nei Paesi in via di sviluppo, inquinamento ambientale e bassissimo costo.

A.L: produzione lenta, cappi realizzati a mano con cura, unicità dei capi, qualità dei materiali, tutela della manodopera, ridotto impatto ambientale e costo medio-alto.

Nonostante questo divario, Le Moire nella loro piccola realtà artigianale si impegnano a far convivere questi due sistemi attraverso l’economia circolare, riutilizzando tessuti di scarto delle industrie che andrebbero smaltiti (o inceneriti) e che produrrebbero un grave danno ambientale.

L’interrogativo riguardante le possibili azioni da parte delle grandi aziende fast fashion tocca una serie di argomenti che è difficile sviscerare in maniera esaustiva e sintetica in questo contesto. Il nostro auspicio è che esse possano apportare dei cambiamenti sostanziali non solo sulla riduzione dell’inquinamento, ma anche ponendo l’accento sulle condizioni dei lavoratori e sulla loro sicurezza.

4) Sono molte anche le ragioni che spingono a sviluppare nuove idee legate alla sostenibilità. Tra le linee guida di Le Moire viene menzionata l’attenzione all’ambiente. In che modo il collettivo cerca di dare il suo contributo? 

Con il collettivo Le Moire cerchiamo di contribuire recuperando tessuti invenduti dalle aziende per realizzare le basi dei nostri capi.

Il progetto prevede anche il riutilizzo di capi dismessi talvolta destrutturati e trasformati in inserti o in filati per nuovi tessuti da realizzare al telaio.

5) Parlando ancora di best practice del consumatore nell’ambito dell’eco-sostenibilità, quali  consigli vi sentireste di dare ai lettori di Clinamen in veste di donne amanti della moda?

Diremmo, al di là dell’aspetto estetico e del gusto personale, che è imprescindibile far attenzione anche alla qualità, guardando l’etichetta e conoscendo la storia e l’origine del capo. Diremmo di comprare da negozi di cui si conosce l’affidabilità, di sostenere anche l’artigianato locale, da brand, anche se meno conosciuti, che sono più attenti all’ambiente e al rispetto del lavoratore.

6) In occasione della Giornata mondiale del commercio equo e sostenibile, l’associazione internazionale World Fair Trade Organization chiede ai governi di incoraggiare un commercio  a svantaggio della vendita di prodotti a basso costo e di dar maggior voce al settore dell’artigianato per minimizzare le ingiustizie sociali. Tutto ciò dovrebbe permettere ai consumatori di compiere delle scelte più responsabili che siano allo stesso tempo abbordabili dal punto di vista finanziario. Pensate che ciò sia attuabile nell’ambito dell’artigianato?

Crediamo che l’artigianato sia una realtà a se stante, poiché la qualità ha un costo e dimezzare i prezzi vorrebbe dire svalutare il lavoro e la materia prima tessile.

Inoltre, il prodotto artigianale in qualche modo è un pezzo unico e di sicuro non ripetibile.

7) Quali sono le difficoltà che state incontrando in questa fase iniziale del vostro progetto?

In questa fase iniziale, le problematiche che abbiamo riscontrato sono strettamente legate alla pandemia, che non ci ha permesso di vivere contesti nei quali l’interazione con le clienti è fondamentale per instaurare un legame empatico; il che diventa imprescindibile al di là dell’acquisto. Inoltre, al momento, non ci è possibile effettuare raccolte di abiti dismessi che pensavamo di recuperare face to face con il pubblico durante fiere o eventi del settore.

8) Avete già definito nuove idee per il futuro oppure cercate di focalizzarvi sul presente?

Si, abbiamo dei progetti per il futuro che altro non sono che un’evoluzione del presente.

Innanzitutto, non appena sarà possibile poter interagire in contesti sociali come quelli precedenti alla pandemia, avvieremo dei mini corsi rivolti ad adulti e bambini, in cui racconteremo ed insegneremo l’arte della tessitura.

Inoltre, l’intenzione è quella di partecipare a fiere di settore locali e internazionali senza escludere la possibilità di aprire dei temporary store nei quali vendere i nostri prodotti.