35 millimetri

Persona di Ingmar Bergman

Alfonso Martino


Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. Nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth… e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro”.

Secondo la Treccani, l’alterità indica ciò che si presenta come altro, diverso; in filosofia descrive l’alienazione dell’individuo. Questa condizione dell’essere umano viene analizzata da Ingmar Bergman in Persona, pellicola del 1966 da cui è tratto il monologo riportato sopra. Protagonista della vicenda è Elisabeth Voegler, un’attrice che durante una rappresentazione dell’Elettra, scoppia in una fragorosa risata che sfocia in mutismo. La donna finisce così in ospedale, dove verrà destinata dalla dottoressa – di cui lo spettatore non conosce il nome – alle cure dell’infermiera Alma, con cui si instaurerà uno stretto legame. Le due donne sono decisamente diverse tra loro: l’attrice, attraverso il suo mutismo, esprime la sua mancanza di certezze e il voler rifarsi una vita, a discapito della sua famiglia; l’infermiera, al contrario, è sicura delle sue scelte ed è madre di due figli.

Il regista presenta all’interno del film spazi stretti e pieni di dettagli, anche quando la scena si sposta nella residenza estiva della dottoressa, luogo lontano dalla città in cui Elisabeth può guarire più velocemente. La convivenza porta l’infermiera ad aprirsi con l’attrice e a dubitare di quelle che ha sempre considerate certezze; mentre Alma si confessa con Elisabeth, la luce di una lampada illumina il suo volto, simbolo di purezza e stabilità dell’individuo, in contrasto con quello in penombra dell’attrice. Il dualismo è ancora più d’impatto grazie al bianco e nero della pellicola.  La crisi di identità viene mostrata da Bergman attraverso diversi stratagemmi: Alma inizia a guardarsi frequentemente allo specchio, identificandosi sempre più in Elisabeth; le inquadrature delle mani, che con il loro tremore indicano la paura e il nervosismo. Questo avviene quando l’attrice cerca di nascondere agli occhi dell’infermiera la foto del figlio, simbolo di una società che vuole livellare gli individui attraverso convenevoli e schemi precostituiti. La maternità spaventa entrambe le donne: Alma decide di abortire quando era più giovane, mentre Elisabeth, già realizzata come donna e lavoratrice, cade in uno stato di inquietudine dopo che le viene fatto notare la mancanza di un figlio nella sua vita, all’inizio desiderato e poi disprezzato.

Il bambino viene mostrato all’inizio e alla fine della pellicola, in uno stato di adorazione nei confronti di una gigantografia della madre, simbolo dell’incomunicabilità tra i due. Questa rivelazione non viene fatta dall’attrice, che persiste nel suo mutismo, ma dall’infermiera, che riesce a scavare nell’animo di Elisabeth.

Il monologo viene ripetuto due volte, per permettere alla macchina da presa di mostrare il punto di vista di entrambe le donne: il regista svedese si concentra prima su Elizabeth, mostrando l’orrore e lo sgomento sul suo volto, per poi puntare l’obiettivo su Alma, fredda e razionale nella sua analisi. La fine del monologo coincide con un’inquadratura in cui i volti delle due donne vengono contrapposti, formando un unico viso dove convivono una parte più accesa – quella di Alma – e una più scura, rappresentante l’attrice. Lo spettatore non riconosce cosa è vero e cosa no perché l’intento di Bergman è quello di scavare l’animo umano, dove la contrapposizione dei volti rappresenta il culmine dell’incertezza dell’individuo, rappresentato da Alma, che lotta per mantenere integro ciò che lo rende unico.

Il film di Bergman risulta ancora oggi attuale e fonte d’ispirazione per altri artisti; il 31 Ottobre 2019 esce per la Universal Persona, disco di Marracash, rapper milanese che ha ripreso il concept della pellicola per trattare all’interno delle varie tracce la differenza tra artista e personaggio. Da questo si evince che il film ha fatto breccia nel cuore degli spettatori e, anche a distanza di cinquantaquattro anni, riesce a comunicare un messaggio forte e incisivo.