Lo scenario

Russia e Bielorussia destabilizzano l’Europa Orientale

di Nicolò Errico

L’Europa Orientale non trova pace.
Come scritto precedentemente su Clinamen nell’articolo “Breve mappa della leva militare obbligatoria in Europa”, l’area baltica-orientale è fortemente militarizzata, e questo è per lo più dovuto alla costante minaccia che il colosso russo si preoccupa di mantenere nella regione.
La Russia di Putin irruppe in Europa quando approfittò del caos che regnava nell’Ucraina del presidente filo-russo Janukovyč, che stava affrontando violente contestazioni iniziate nell’autunno del 2013. Lo stesso giorno in cui Janukovyč fuggiva da Kiev, dopo giorni di feroci scontri nella capitale, l’esercito russo iniziava l’invasione della Crimea – regione a maggioranza russa -, conclusa in due giorni senza colpo ferire.
Neanche due mesi dopo, due regioni nell’Ucraina orientale dichiararono l’indipendenza, formando due stati appoggiati dalla Russia: la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk. Il governo centrale ucraino non ha mai riconosciuto le due proclamazioni, ma la resistenza dei separatisti e l’ingente supporto russo hanno fatto sì che le ostilità tra Ucraina e le due repubbliche si protraessero fino ad oggi senza veri e propri cambiamenti, se non il numero dei morti che cresce di giorno in giorno.
La guerra del Donbass è rappresentativa delle caratteristiche della nuova guerra contemporanea: non solo è uno dei principali campi di battaglia di quella che alcuni politologi e giornalisti definiscono la nuova Guerra Fredda, che vede affrontarsi il fantomatico blocco compatto della NATO contro la Russia autocratica di Putin, ma ha visto l’utilizzo di tutte le novità belliche del nuovo secolo, come la guerra cibernetica, attacchi informatici – come quello del Dicembre 2015 che mise in ginocchio il sistema elettrico dell’Ucraina -, droni, l’impiego di truppe prive di insegne ufficiali, di mercenari e volontari forniti di equipaggiamenti avanzati.
Non è nuova la strategia della tensione. Mettere sotto pressione gli avversari con movimenti di truppe lungo il confine è forse una delle più antiche tattiche del mondo. Una tattica estremamente pericolosa, perché provocare i Paesi vicini comporta sempre il rischio di entrare in guerra.

Dunque, la presenza massiccia di truppe russe al confine ucraino non sorprende da sette anni. Tuttavia, negli ultimi mesi la NATO è in allarme e i tamburi di guerra hanno ripreso a suonare più forte del solito. Questo perché, senza apparentemente una ragione particolare in una situazione di costante tensione, la presenza russa – nel territorio russo che confina con l’Ucraina – è aumentata esponenzialmente fino a toccare l’impressionante cifra di 120.000 militari – armati di imbarcazioni, velivoli e veicoli terrestri.
Il presidente ucraino Zelensky chiede a gran voce un chiaro supporto da parte della NATO ed in particolare agli USA, ma a parte vaghe minacce – e la tiepida minaccia di sanzioni economiche in caso di invasione da parte di Biden – continua a godere solo di rifornimenti di armi e del silenzioso aiuto degli alleati occidentali.
Lo scopo di Putin è probabilmente quello di ottenere da parte della NATO la promessa che l’Ucraina non potrà aderire all’alleanza militare occidentale. Il governo russo non vuole avere uno storico rivale, equipaggiato ed addestrato con gli standard NATO, a fare da guardia all’importante confine orientale russo e soprattutto al Mar Nero, dove già è presente la Turchia. Non si possono escludere anche ragioni di politica interna. Putin esce sì vittorioso dalle elezioni parlamentari di settembre, ma anche da un periodo di grande contestazione, a seguito dell’arresto dell’oppositore Aleksej Naval’nyj. È nel DNA delle autocrazie manipolare – o creare ad hoc – conflitti per aumentare il consenso interno con la prospettiva di un nemico comune contro cui unificare la nazione.
La Russia di Putin però ha anche tremato di fronte la prospettiva di perdere un alleato – per quanto volubile -, il dittatore della Bielorussia Aljaksandr Lukašėnka, con l’impressionante ondata di proteste che ha scosso il paese tra il 2020 e 2021. Dopo una dura repressione, fatta di arresti, uccisioni e violazioni dei diritti umani, sia Putin che Lukašėnka entrano nel 2022 con i propri stati saldamente nelle mani. Ciononostante, per motivi di politica estera ed interna, entrambi hanno avviato le proprie strategie della tensione nelle reciproche regioni.
Se infatti la Russia aumenta la pressione sull’Ucraina, la Bielorussia ha scelto di sperimentare una nuova arma contro Lituania e Polonia, o meglio, contro l’Unione Europea: i migranti. Apprendendo dal maestro recente (non il primo) di questa strategia, e cioè il dittatore della Turchia Recep Tayyip Erdoğan, Lukašėnka ha deciso di sfruttare la disperazione di persone in cerca di rifugio nell’Unione Europea per mettere in difficoltà i vicini membri dell’UE. Attraverso un sistema di facile e rapida concessione di visti e permessi, con viaggio per Minsk e poi da lì ai confini con l’UE inclusi nel pacchetto, la Bielorussia di Lukašėnka spera di ottenere una riduzione delle sanzioni europee contro il regime bielorusso così come Erdoğan in Turchia ha utilizzato i migranti per ottenere fondi e riconoscimento, aprendo e chiudendo i confini come un rubinetto.
Sfortunatamente per loro, la Polonia è una fragile democrazia, dove il partito di destra Diritto e Giustizia (PiS), che ha minato sia il diritto che la giustizia del giovane stato suscitando le preoccupazioni della Commissione Europea, aizza la popolazione contro oppositori, omosessuali, democratici ed ovviamente, contro i migranti. La reazione di Polonia e Lituania è stata alzare muri di filo spinato ed usare la violenza di polizia su masse di disperati. PiS, alle prese con un’importante perdita di consenso elettorale, si trova con la ghiotta occasione di poter strumentalizzare la crisi per incanalare il rancore xenofobo e riottenere supporto. Non è un caso dunque che il governo polacco menta sui numeri della crisi, gonfiandoli fino all’inverosimile – per ora – cifra di 30.000 persone.

Dunque, alcune migliaia di persone – per lo più da Iraq e Siria – si trovano tra incudine e martello, e storie terrificanti dal remoto confine di questi due paesi rivali filtrano a malapena grazie al lavoro di alcune ONG e giornalisti. Una missione di europarlamentari del gruppo Socialisti e Democratici (S&D) ha lanciato un appello a fine novembre per accendere i riflettori su questa tragedia che si consuma sul continente europeo, oscurata in poco tempo dalla nuova ondata di casi legati alla variante Omicron del Covid-19.