Particularia

Sebastião Salgado: la fotografia che invita alla salvaguardia del mondo

di Roberta Giannì

Quando al MAXXIMuseo di Arte Contemporanea – di Roma fu inaugurata la mostra dedicata ai bellissimi scatti di Sebastião Salgado, non persi tempo. Subito prenotai un biglietto e la domenica seguente ero finalmente in fila all’ingresso del museo, in attesa. La gente affollava l’atrio, chi chiedendo informazioni, chi già sicuro di che direzione prendere; la maggior parte della gente presente quel giorno era venuta per immergersi nell’Amazzonia di Sebastião Salgado. I suoi scatti, raccolti nella suggestiva esposizione “Amazônia”, godevano di una suggestiva esposizione in penombra, alcuni appesi attraverso lunghi cavi allacciati al soffitto, altri affissi sulle pareti di un vivido color porpora, circondati dai suoni della foresta amazzonica, dal rumore dell’acqua dei fiumi e delle fronde scosse dal vento.

Le immagini, in bianco e nero e caratterizzate da forti contrasti, raffiguravano l’Amazzonia vista attraverso gli occhi di Salgado. I fiumi, le montagne, le nuvole che dal cielo si specchiavano nell’acqua, l’incolta vegetazione, le popolazioni che la abitano ancora oggi. Uomini, donne e bambini delle diverse tribù di quei territori, impegnati in attività nel loro villaggio, in rituali o semplicemente in posa per il fotografo che ne racconta la storia: una storia fatta di memoria e di ricordi, di identità e cultura che lentamente si vanno perdendo, assieme a quel polmone verde di cui Salgado racconta la meraviglia ma anche il costante pericolo che incombe su di lui.

Sebastião Salgado nasce in Brasile nel 1944. All’inizio, la fotografia non è tra i suoi principali interessi, e, negli anni, egli si forma come economista, prima in Brasile e poi in Francia.

Sebastião Salgado

Negli anni ’70, impegnato in viaggi per conto dell’Organizzazione Mondiale del Caffè per la quale lavora, inizia a interessarsi ai territori dell’Africa, rimanendo particolarmente colpito dal genocidio in Ruanda. L’Africa è un vasto territorio con problematiche che non lasciano Salgado indifferente: l’uomo volge il suo occhio attento alle problematiche ambientali e sociali che riguardano il territorio, documentando tutto con lo strumento che aveva scelto come compagno di viaggio, la macchina fotografica. La persistenza di una situazione, al contrario dei fotografi ancorati all’attualità, è la caratteristica che più lo attrae nella ricerca dei suoi soggetti: egli non sceglie di raccontare la povertà, ma la gente che vive i campi profughi, uomini e donne dal volto segnato dalla disperazione, dediti alla costante ricerca di un luogo in cui vivere dopo aver perso le proprie case. I suoi scatti sono dunque permeati da una forma di rispetto per queste persone e da un senso di responsabilità che lo portano a non avere troppi tecnicismi o attenzione nella composizione nei propri scatti, ma semplicemente a raccontare la storia dei suoi soggetti in modo che tutti sappiano:

“Io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita. Non penso troppo alla luce e alla composizione, il mio stile è dentro di me e quella luce è quella del Brasile, quella che porto dentro di me da quando sono nato”.

Sono questi i caratteri del tipico artista engagé, il cui occhio si posa sulle importanti tematiche sociali e umanitarie. Salgado sceglie di esserlo in maniera del tutto personale, completamente fuori dagli schemi del fotogiornalismo e dell’impegno politico inteso in senso militante; egli realizza le sue inchieste in quei luoghi dove nessuna stampa lo sollecita, luoghi in cui vi è un incessante avanzare di complesse dinamiche ambientali, politiche e umane.

La fine del ‘900 segna il declino dei lavori manuali e tradizionali, che iniziano pian piano a essere soppiantati dalle prime tecnologie. Salgado, attento osservatore, presto capta questo importante cambiamento sociale ed è così che nasce “La mano dell’uomo”: storie di pozzi di petrolio del Golfo Persico, miniere di zolfo in Indonesia, dramma e disperazione umane catturate in 35mm, tutte testimonianze della dignità dei lavoratori che per mesi vivevano in posti angusti e umidi, gli ultimi portavoce di una manualità da lungo tempo insita nell’essere umano.

L’empatia muove il tutto: i soggetti sono raffigurati con rispetto e con sguardo naturale, l’osservatore rimane emotivamente coinvolto. Numerosi i ritratti dei singoli lavoratori a cui si affiancano le fotografie di gruppo, oppure ancora la semplice ambientazione industriale; è carico di determinazione lo scatto che vede decine di uomini levare in alto i propri attrezzi, lo sguardo levato in alto, qualcuno diretto al fotografo che è dinanzi a loro, donne e uomini uniti nello stesso sentimento.

Il progetto “Genesi”

A seguito dell’esperienza sul campo del genocidio etnico in Ruanda e delle numerose documentazioni delle migrazioni forzate di intere popolazioni per motivi bellici ed economici, inizia per Salgado una fase, come lui stesso ammise, di cupo pessimismo.

“Fino ad allora non avevo immaginato che l’uomo potesse appartenere a una specie così crudele verso se stessa, e non riuscivo ad accettarlo”.

Ad alimentare il pessimismo del fotografo non era solo una crudele umanità divisa al suo interno, ma l’intero pianeta terra che si scontrava, senza possibilità di vittoria, con essa: alberi che venivano abbattuti, paesaggi rovinati ed ecosistemi distrutti dalla modernità che avanzava, portando con sé distruzione e inquinamento di ambienti che fino ad allora erano rimasti incontaminati. Ed ecco l’idea del progetto “Genesi”: Salgado che guarda con orrore a tutto ciò e ne raccoglie molteplici scatti, tuttavia non con l’intenzione di documentare questa fase di grande squilibrio emotivo, quanto per omaggiare la terra ricordandone gli ecosistemi, la flora e la fauna.

Fu la moglie Lélia a dargli l’ispirazione: rilevando una fattoria di famiglia, i coniugi si ritrovarono di fronte a una realtà desolante. Gran parte della foresta atlantica (compresa la zona di proprietà dei Salgado) era stata abbattuta con l’ingresso del Brasile in una economia di mercato. Con l’aiuto delle istituzioni locali, nazionali e internazionali, i Salgado si adoperarono a favore di una rinascita della foresta, ripiantando in pochi anni milioni di piante di trecento specie differenti; trasformata poi la proprietà in riserva privata del patrimonio naturale, sottraendolo a usi agricoli, fondarono l’Istituto Terra, centro di formazione sulla foresta.

Il progetto “Genesi”, che prese il via nel 2004 e si prolungò fino al 2011, si fonda su scatti in bianco e nero in cui la natura si impone come principale protagonista. L’osservatore si perde nella vita terrestre nel suo complesso, ammirando flora e fauna in habitat incontaminati; e poi i gruppi indigeni che fanno da cornice, come i kuikuros, i wauras e i kamayura nel Mato Groso, oppure gli zo’è nello stato del Parà in Brasile. Uno dei più grandi omaggi al Pianeta Terra in cui non v’è traccia della mano trasformativa dell’uomo, il quale si limita a cacciare e a raccogliere i frutti della terra. Scatti di un paesaggio agricolo e pastorale, preindustriale, dotato di una bellezza multiforme che si ritrova nei muretti a secco, nella trama dei filari, nelle sparse costruzioni sparse sulle pendici, nei campi aratri e nei boschi. Salgado è in costante ricerca dell’incontaminato, contrapposto alla civiltà industriale che sempre di più si impone, in cui il lavoro trasformativo dell’uomo non è in grado di stabilire un rapporto equilibrato con la natura che lo circonda; l’uomo è strapotente, la bellezza non ha più alcun significato.

“Amazônia”

Arcipelago fluviale di Mariuá. Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019 © Sebastião Salgado/Contrasto

Lélia Wanick Salgado ha le idee ben chiare: con “Amazônia” vuole ricreare un ambiente in cui il visitatore si possa immergere nella rigogliosa vegetazione e nella vita quotidiana delle popolazioni native della foresta, circondato dai fruscii degli alberi, dallo scorrere dell’acqua e dai versi degli animali, attraverso immagini in bianco e nero di diversi formati, collocate, ad altezze differenti, in spazi che rimandano alle ocas, le tipiche abitazioni indigene, evocando in modo vivido gli isolati e piccoli insediamenti umani nel cuore dell’Amazzonia.

” Amazônia”, MAXXI – Museo di Arte Contemporanea, Roma

I suoni che accompagnano il visitatore sono racchiusi nella traccia audio del musicista e compositore francese Jean-Michel Jarre, composta appositamente per la mostra. L’area in cui l’osservatore si muove è quasi completamente al buio, con dei fari puntati in direzione delle fotografie, appese a differenti altezze con dei cavi dal soffitto. La pareti sono di colore grigio scuro, le ocas sono di ocra rossa; ad accompagnare le immagini ci sono dei filmati video in cui sono ritratti i leader delle comunità indigene intenti a narrare la propria vita e la propria quotidianità.

“Amazônia” raccoglie sette anni di immagini scattate da Salgado nel cuore del pianeta e dell’umanità. Oltre 200 fotografie che portano l’osservatore a immergersi a 360° nella vegetazione della foresta amazzonica, con un invito a riflettere sulla sua protezione e salvaguardia. A essa sono dedicati due percorsi: il primo è caratterizzato da fotografie di ambientazione paesaggistica, con panoramiche della foresta, in cui è possibile ammirare i cosiddetti “fiumi volanti”, una grande quantità di acqua che si innalza attraverso l’atmosfera; il secondo si caratterizza invece della parte umana della foresta, con le immagini delle popolazioni indigene che abitano quell’area assieme alle loro ocas, le tipiche abitazioni.

Il progetto è successivo a “Genesi”: Salgado si ripropone una serie di viaggi per catturare la ricchezza e la bellezza variegata della foresta amazzonica, gli usi e costumi delle popolazioni che la abitano, stabilendosi presso i loro villaggi per diverse settimane, immortalando ogni dettaglio attraverso la sua macchina fotografica. Se “Genesi” era un grande omaggio al Pianeta Terra, “Amazônia” è un invito a riflettere su come la mano dell’uomo sia distruttiva nei confronti di zone incontaminate quali la foresta amazzonica, la quale tenta di sopravvivere in una situazione di costante pericolo. Le verdi foreste, i fiumi, gli alberi, tutto catturato dall’occhio di Salgado, che ripropone la realtà in scatti in bianco e nero carichi di drammaticità, ricreando quasi un effetto cinematografico, attraverso cui l’osservatore si sente connesso con questo mondo incontaminato, come se essi ne avessero risvegliato un senso di salvaguardia rimasto nascosto. Salgado mostra come alla grande bellezza della foresta corrisponde un immenso disastro, dettato anche dalla situazione economico-politica che non aveva tra le sue priorità ha la salvaguardia dell’ecosistema.

Gli occhi delle popolazioni ritratte da Salgado seguono lo spettatore nel suo girovagare. La natura e l’uomo che la abita: Salgado si mescola a queste popolazioni, immortalando uomini, donne, bambini e anziani in singoli scatti o intenti a svolgere attività nel loro quotidiano; popolazioni che hanno scelto di raccontarsi attraverso l’occhio di Salgado, che ben hanno accettato nelle loro comunità: come gli awá-guajá, che contano solo 450 membri e sono considerati la tribù più minacciata del pianeta, o i korubo, fra le tribù con meno contatti esterni; proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha trascorso del tempo con loro.

Oggi, Sebastião Salgado è Rappresentante Speciale dell’UNICEF e membro onorario dell’Accademia delle Arti e delle Scienze negli Stati Uniti. Oltre ai grandi riconoscimenti della comunità internazionale, ha ricevuto prestigiosi premi quali l’Eugene Smith Award for Humanitarian Photography nel 1982, l’Erna and Victor Hasselblad Award nel 1989, Grand Prix de la Ville de Paris nel 1991, l’Award Publication dell’International Center of Photography e il World Press Photo.  La potenza del suo linguaggio fotografico, già nel 2014, è stata racchiusa nel monumentale documentario “Il sale della terra”, che traccia il percorso umano e artistico del fotografo brasiliano: il documentario è diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio del fotografo, ed è stato presentato in concorso al Festival di San Sebastian del 2014 e al Festival Internazionale di Roma dello stesso anno.

Salgado ha scattato sempre in modo tradizionale, utilizzando pellicola fotografica in bianco e nero, una Leica reflex con obiettivo 28mm, una Leica M con obiettivo 35mm e una reflex Leica con obiettivo 60mm. È degli ultimi anni la Pentax 645, per ingrandire maggiormente le sue stampe. A seguito dell’attentato dell’11 settembre e ai maggiori controlli in aeroporto che ne sono derivati, in aggiunta alla difficoltà di trasporto delle numerose pellicole specie nel corso della realizzazione del progetto “Genesi”, hanno portato il fotografo a un approccio con la tecnologia digitale.

“Abbiamo in mano il futuro dell’umanità, ma dobbiamo capire il presente. Le fotografie mostrano una porzione del nostro presente. Non possiamo permetterci di guardare dall’altra parte ” .