Approdi

Storiografia umanistica: punti di contatto e fratture con la tradizione precedente

La Scuola di Atene, Raffaello Sanzio, Musei Vaticani

di Enrico Molle

Prima di affrontare un discorso sulle varie tappe della storiografia per approdare a quella umanistica, è doveroso definire il concetto stesso di storiografia al fine di evitare equivoci e incomprensioni. Sempre più spesso si rischia di usare indifferentemente il termine storia e quello di storiografia, che in realtà hanno significati dissimili e a tratti persino opposti. In effetti la storia, propriamente detta, è un insieme di fatti accaduti e si distingue dalla storiografia, che è l’insieme di forme di scrittura e interpretazione di quei fatti. Per di più, mentre per sua natura la storia è oggettiva, la storiografia è soggettiva in quanto uno stesso fatto può essere interpretato diversamente da ogni individuo.

Volendo definire la storiografia si potrebbe dire che si presenta come la descrizione dei fatti della storia e mette insieme tutte le forme e le maniere di interpretare, trasmettere, studiare e raccontare i fatti accaduti. Ovviamente, tenendo conto che qualsiasi considerazione, ricerca ed esposizione su ciò che è avvenuto deriva da interpretazioni personali, quindi influenzate e condizionate dal clima culturale e politico in cui si muove l’interprete, la storiografia è prettamente soggettiva, parziale e provvisoria. Ciò potrebbe portare ad affermare che, considerando ogni persona vivente in possesso di una sua individualità unica e irripetibile, quindi capace di filtrare e interpretare i fatti e le notizie in maniera propria e peculiare, di ogni fatto potrebbero esistere tante interpretazioni storiografiche quanti sono gli esseri pensanti che lo prendano in considerazione. Tuttavia questo compito è delegato agli storici che si occupano di fornire le esposizioni più fondate e attendibili. La differenza tra storia e storiografia è in parte analoga a quella che intercorre tra un fatto e il suo stesso ricordo, tra il vivere una vicenda e raccontarla. In effetti dopo che una vicenda si è svolta nei suoi tempi e nei suoi modi, con i suoi effetti oggettivi, se ne ricorda e se ne riporta solo una sintesi nella quale rimangono esclusivamente alcune immagini, sensazioni e prospettive del reale svolgimento.
Appare evidente dunque che la storiografia, a causa della sua relatività, non può produrre verità storiche, o meglio storiografiche, inamovibili e assolute, dovendosi trattare sempre di ricostruzioni, interpretazioni e conoscenze con diversi gradi di attendibilità e peraltro parziali e provvisorie.

1. Origini del concetto di storiografia

L’accezione di storiografia che noi oggi conosciamo trae le sue origini e le sue caratteristiche da due specifici concetti culturali: quello della centralità e della razionalità della politica, elaborato dal mondo greco, e quello del provvidenzialismo e del monoteismo elaborato dal giudaismo e dal cristianesimo. Prendendo in considerazione le Storie di Erodoto, identificata tra l’altro come la prima opera storica in senso proprio, ci troviamo dinanzi al tentativo di ricostruzione e di decifrazione, in termini razionali e sistematici, degli avvenimenti del passato utili anche e soprattutto per capire il presente. Allo stesso modo si può notare come in alcuni dei libri che compongono la Bibbia, precedenti all’opera di Erodoto, ci siano narrazioni sulla storia del popolo ebraico e sul suo rapporto con un Dio che interviene sistematicamente in essa, tutto inquadrato nell’ottica di un disegno salvifico e di un patto stipulato dallo stesso Dio con il suo popolo eletto.
L’incontro fra queste due tradizioni culturali profondamente diverse ha sancito la peculiarità del percorso europeo alla storia, nel modo in cui essa si configura, al termine di una vicenda culturale lunga e complessa, nel passaggio fra l’età moderna e contemporanea: una perenne ricostruzione e decostruzione, interpretazione e reinterpretazione del passato in chiave prevalentemente politica, razionale e secolarizzata, che aspira continuamente alla formulazione di una filosofia della storia in modo da conferire un senso unitario e un comune destino alle vicende umane, travalicando la loro apparente frammentarietà, casualità e contraddittorietà.
In definitiva la storiografia nasce con l’intenzione di dare alla storia un’immagine che possa tradurre in chiave laica quei valori assoluti e quei fondamenti del patto sociale e della fides generalmente assicurati dalla religione, che il processo di modernizzazione ha inevitabilmente disgregato e svuotato.

2. Storiografia in età classica

La scoperta della centralità e razionalità della politica, come appena detto, ha ricoperto un ruolo fondamentale nel mito di fondazione della nazione greca, scaturito da una lettura ideologica delle guerre persiane, viste come lo scontro fra libertà e dispotismo. Di fatto, nel corso del conflitto, le poleis greche fondarono la loro comune identità su una costruzione politica agli antipodi rispetto a quella dell’avversario. Veniva così contrapposta alla realtà delle monarchie orientali, caratterizzata dal potere assoluto di re divinizzati, quella delle poleis greche, in cui i cittadini partecipavano attivamente alla vita comunitaria e al dibattito governativo-politico. Questo processo di autoidentificazione della nazione greca segnò un frattura tra i due mondi che fino a quel momento avevano intrattenuto numerosi e costanti scambi commerciali.
Questi episodi segnarono la vita e l’opera di Erodoto, considerato il padre fondatore della storia. Nato ad Alicarnasso fra il 490 e il 480 a. C., colonia ionica dell’Asia minore, fu costretto dallo scoppio del conflitto e da circostanze che videro coinvolta la sua famiglia in una fallita congiura filo-persiana, ad abbandonare la città natia e ad intraprendere numerosi viaggi. Approdato ad Atene fu conquistato dalla bellezza della città e dalla sua fiorente vita culturale a tal punto da adottare i valori e le aspirazioni della classe dirigente ateniese, nonostante si fosse formato nel modo culturale ionico.
L’impianto della formazione intellettuale ateniese è ben presente nelle sue Storie, opera che narra il conflitto greco-persiano e che, a detta dello stesso autore, fu composta «affinché non sbiadisca col tempo il ricordo di ciò che fu prodotto dagli uomini, né rimangano prive di fama e di memoria le opere grandi e meravigliose compiute sia dai greci che dai Barbari». Tutto ciò è evidentemente in accordo con quell’idea di fornire, narrando e descrivendo i fatti, un’immagine lineare della storia e la possibilità, per i posteri, di analizzare il passato.

Erodoto

Nonostante l’importanza di Erodoto e della sua opera, che si caratterizza anche per l’attenzione rivolta anche agli aspetti della vita materiale, culturale e religiosa dei popoli, oltre a quelli politico-militari, il fondatore riconosciuto del modello storiografico greco, che sarà fatto proprio dai romani e rimarrà dominante nel mondo antico, per poi essere riscoperto dagli umanisti ed entrare a far parte del canone storiografico, è Tucidide.

Nato ad Atene intorno al 460 a. C. da una famiglia nobile, fu un fervente sostenitore di Pericle e, dopo la morte del grande statista, pur essendo avverso al regime democratico affermatosi, ricoprì la carica di stratega della flotta di Atene nella guerra contro Sparta. Avendo fallito la spedizione di soccorso nella battaglia di Anfipoli, lasciò Atene probabilmente in maniera spontanea (alcuni studiosi ritengono che venne cacciato) per evitare l’accusa di tradimento e visse in esilio in Tracia, salvo tornare ad Atene poco prima della sua definitiva sconfitta.
Il suo capolavoro storiografico è La Guerra del Peloponneso, dedicato alla narrazione delle vicende del conflitto che lacerò il mondo greco per quasi un trentennio. Quest’opera ci mostra un’eccezionale capacità nel cogliere i nessi fra avvenimenti lontani nello spazio e nel tempo, riuscendo a mettere in luce i movimenti reali dei protagonisti dello scontro, prevedendo quelle che sarebbero state le conseguenze a lungo termine delle scelte politico-militari, confrontando e vagliando l’attendibilità delle testimonianze. Rispetto ad Erodoto, Tucidide non concede nessuno spazio al meraviglioso, al mito, all’intervento divino, ma concepisce la storia in maniera fattuale e razionale, concentrandosi sulle dinamiche politico-militari, aprendosi pochissimo alle curiosità per altre culture o per dimensioni della vita umana esterne alla politica.

Tucidide

Il modello storiografico di Tucidide si impose saldamente nel mondo greco e, grazie a Polibio, uno storico che aderì pienamente ai suoi criteri, fu adottato dalla classe dirigente romana, andando a sostituire una tradizione storiografica locale decisamente debole e affermandosi di fatto come il canone storiografico del mondo classico.

Polibio nacque a Megalopoli intorno al 200 a. C. e fu per tradizione familiare fra i più eminenti uomini della città, ricoprendo alte cariche politiche all’interno della Lega Achea, un’alleanza tra città greche contro le pressioni macedoni e l’espansionismo romano. In seguito alla sconfitta della Macedonia di Perseo a Pidna (168 a. C.), la Lega Achea fu costretta ad assumere un atteggiamento filo-romano e inviò mille ostaggi greci a Roma a garanzia della condizioni di pace, tra i quali vi era Polibio. Questi fu adottato da Emilio Paolo e rimase a Roma diciassette anni, durante i quali orientò i suoi interessi verso la riflessione politica e storica. Gli venne affidata l’educazione di Scipione Emiliano, figlio adottivo del suo protettore, e grazie alla posizione di quest’ultimo poté studiare dall’interno i meccanismi dello Stato e dell’organizzazione militare e politica romana. Persuaso dall’ambiente e convinto ormai della definitiva sconfitta della Grecia, Polibio aderì pienamente alla cultura e alla politica degli Scipioni che in quegli anni miravano a un’unione fra cultura greca e romana.

Polibio

Le sue Storie, opera che cerca di fornire una storia universale del periodo fra il 220 a.C. e il 146 a.C., ci propongono un spiccata riflessione sull’ascesa della potenza romana e sugli organismi politici che, per legge naturale, percorrono tre forme di costituzione governativa: quella monarchica, quella aristocratica e quella democratica, ognuna destinata a degenerare (rispettivamente in tirannide, oligarchia e anarchia) spianando la strada alla successiva. La sua riflessione portava a concludere che il successo di Roma risiedeva nell’equilibrata forma di governo misto di cui era caratterizzata, nel quale convivevano elementi monarchici (i consoli), aristocratici (il senato) e democratici (i comizi e i tribuni della plebe).

Le Storie di Polibio hanno contribuito in maniera decisiva al processo di ellenizzazione della cultura romana e, grazie al recupero della cultura classica da parte dell’umanesimo, alla formazione di due archetipi basilari della cultura europea: la teoria del governo misto, che ha avuto straordinaria fortuna e infinite rielaborazione; la concezione pragmatica della storia, di impronta politico-militare, essenziale a formare uomini di stato da parte di altri uomini di stato.

3. La storiografia nel Medioevo

La storiografia elaborata nel mondo classico si caratterizza per una concezione differente dal nostro immaginario comune: i greci e i romani avevano una visione ciclica del tempo storico, considerando gli organismi politici come quelli umani che nascono, si sviluppano e muoiono, ripetendosi infinitamente. Tuttavia non venne elaborato in quest’ambito il concetto di un progresso illimitato, coinvolgente tutte le espressioni dell’attività umana, un aspetto caratteristico della concezione progressiva della storia che ha le sue radici nella visione provvidenzialistica che si svilupperà durante il medioevo.

Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente si manifestò una delle spaccature più significative della storia europea, che apportò profondi mutamenti nelle strutture culturali e mentali e quindi anche nel modo di vedere e considerare la storia. Chiaramente in questo periodo la storiografia subì un ridimensionamento rispetto all’epoca classica, riscontrando non poche difficoltà nel cogliere precisamente tutti i risvolti politici e nel collegare quei fenomeni lontani nello spazio e nel tempo solo in apparenza. Venne meno anche la capacità di inquadrare le differenti dinamiche sociali, rafforzando però la componente irrazionale del sacro, del miracoloso e del meraviglioso, con la quale si fornivano sempre più spesso le spiegazioni a numerosi eventi.
Ciò che però deve essere riconosciuto alla storiografia medievale è di certo la visione di una storia universale, quell’historia salutis che offriva un’interpretazione unitaria del corso della storia, riferita non più alla singola entità politica, ma all’intera umanità sin dalle origini del mondo. Nasceva così un’idea del tempo storico non più ciclico, ma lineare. Tutto ciò fu reso possibile, come accennato in precedenza, dall’incontro di due tradizioni storico-culturali: quella greco-romana e quella giudaico-cristiana.
Ovviamente l’incontro e la fusione di queste due diverse culture non fu facile e se i cristiani furono in un primo momento ostacolati e perseguitati dalle autorità romane, in seguito agli editti di Milano (313 d. C.) e l’editto di Tessalonica (391 d. C.) la situazione mutò profondamente tanto da porre i seguaci di Cristo nella controversa situazione di non poter più assumere quel distacco dal potere politico che ormai aveva accettato e riconosciuto il loro messaggio. Tale controversia fu risolta elaborando una filosofia della storia che reinterpretava la storia stessa in chiave provvidenzialistica e che fondeva appunto la tradizione ebraica, di matrice religiosa, e quella greco-romana, di matrice razionale e politica. Tutto ciò ebbe come punto d’arrivo cruciale l’idea che l’Impero romano, creato dagli uomini, rappresentava lo strumento, inizialmente inconsapevole, destinato a creare quelle condizioni di unità politica, linguistica e culturale essenziale perché il messaggio di Cristo raggiungesse tutti.
Grazie a questo nuovo schema interpretativo, che tuttavia poteva già essere rintracciato in alcune opere di storici cristiani del IV e V secolo come Eusebio di Cesarea, durante tutto il Medioevo fiorirono numerose storie universali, nelle quali veniva immersa ogni vicenda minore, poiché proprio la collocazione in uno schema provvidenziale conferiva anche ai piccoli episodi una sua dignità, utilità e significato.
Dunque la nuova visione provvidenzialistica riconciliava i cristiani con il mondo e la storia e conferiva allo stesso tempo legittimità al potere politico, pur subordinandolo al disegno divino. Un tale concetto venne strumentalizzato dalla Chiesa che, durante tutto il Medioevo, cercò di imporre la superiorità del suo potere spirituale su quello temporale, tuttavia fallendo dinanzi a una progressiva laicizzazione dello stato.

4. Umanesimo e storiografia: linee tematiche

Con l’avvento nel XIV secolo del movimento intellettuale definito Umanesimo, prima in Italia e poi nel resto dell’Europa, si sviluppò una rinnovata attenzione alle discipline morali, civili e letterarie, ossia a quei cosiddetti studia humanitatis intesi a esaltare l’uomo naturale nel modo in cui si manifestava al suo culmine nell’antichità classica, che doveva essere recuperata a prescindere dal suo grado di assorbimento nel cristianesimo. Naturalmente l’Umanesimo cercò un distacco col Medioevo, del quale non tollerava la filosofia scolastica, che culminò nell’elevazione spirituale raggiungibile attraverso lo studio delle humanae litterae, ossia quelle discipline che oggi conosciamo come umanistiche: grammatica, retorica, storia, poesia e filosofia. Veniva così a cadere la visione della vita che poneva Dio al centro dell’Universo e imponeva all’uomo una totale sottomissione al volere e al potere della Chiesa, quindi si affermò una nuova visione che poneva l’uomo al centro dell’Universo, considerandolo artefice e padrone del proprio destino. Dunque, durante l’Umanesimo si diffuse una grande fiducia nell’intelligenza umana e si esaltarono particolarmente la dignità dell’uomo, la sua superiorità sugli altri esseri naturali e le sue molteplici capacità creative.
In conseguenza a questa nuova gerarchia del sapere introdotta proprio dell’Umanesimo, è da sottolineare il fatto che alle consuete arti liberali vennero anteposte le discipline morali e civili, fra cui la storia, intesa come luogo di utili e concreti esempi di comportamento per la costruzione di una convivenza civile. Affermando che la storia, in quanto deposito della memoria collettiva, è la vera forma di sopravvivenza dell’individuo virtuoso, gli umanisti intrapresero il recupero di una tradizione storiografica classicista in cui venivano esclusi il governo della Provvidenza e l’approdo ultraterreno. Divenne sempre più importante il comportamento degli uomini, le cui capacità si rivelavano nelle azioni, in una costante dialettica fra virtù e fortuna. Questa maggiore attenzione per la historia rerum gestarum (storia dei fatti accaduti), interessata a capire per meglio insegnare, portò grandi novità rispetto alla tradizione storiografica medievale. Di fatto vennero effettuate ricostruzioni più critiche dei fatti e dei personaggi, disamine più attente delle fonti, ricerche più avvedute delle cause. Tutto questo fa eco alla scoperta umanistica della scienza filologica, che a partire da Petrarca, si impose grazie all’esigenza di non accontentarsi di quella parte delle letteratura latina filtrata dalla Scolastica medievale, ma di recuperare anche le parte dei codici antichi che era andata dimenticata.

5. Storiografia umanistica: importanza del moderno e rapporti col mondo classico e medievale

Nel periodo che va dal XV al XVIII secolo, prima che la cultura laica fosse sicura di sé e si proponesse come alternativa concreta e antagonista rispetto alla cultura ecclesiastica, nell’ideologia europea la concezione ciclica (caratterizzante della cultura classica) e la concezione lineare (caratterizzante della cultura medievale) del tempo storico coesisterono, dando talvolta vita a faticosi tentativi di sintesi e procedendo spesso su binari paralleli e non comunicanti. La concezione ciclica caratterizzò quella storiografia laica che, con l’avvento dell’Umanesimo, recuperò, perfezionò e continuò a riproporre il canone classico, fino alla radicale trasformazione delle strutture mentali, prodotta dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo e al declino del «mito delle origini». Di contro, la concezione lineare improntò una storiografia ecclesiastica che dovette adattare il modello provvidenzialistico medievale ai problemi posti dalla rottura dell’unità religiosa, causata dalle controversie dottrinali fra Chiesa cattolica e Chiese riformate e dalla confessionalizzazione dello Stato moderno.

Oggi vi è una complessiva unanimità nel considerare l’Umanesimo come tappa importante del processo di modernizzazione e vale la pena soffermarsi a riflettere su una sorta di paradosso su cui si fonda il rapporto stesso tra Umanesimo e modernità. Considerando il fatto che la modernità si basa su un concetto fondamentale di progresso, e quindi sull’idea che «oggi» l’umanità sia più progredita (in termini di ricchezza, civilizzazione, cultura e pensiero) di ieri e meno, presumibilmente, di quanto lo sarà domani, bisogna sottolineare che l’Umanesimo condivide soltanto in parte questa concezione del tempo storico in chiave moderna: più precisamente si fonda sul presupposto che l’”oggi” sia migliore, rappresenti un di più, rispetto a “ieri”, ossia al Medioevo, ma esclusivamente nella misura in cui l’”oggi” recuperi e restituisca vita alla cultura e ai valori precedenti lo stesso “ieri”, ossia il mondo classico. Sul “domani”, la posizione del pensiero umanistico appare sfumata e difficilmente definibile, anche perché ha prodotto, proprio come nel mondo classico, opere storiografiche di eccezionale valore, ma nessuna filosofia della storia esplicita, coerente e articolata. Appare tra l’altro evidente come durante l’Umanesimo sia fortemente presente il concetto di limite, come lo era nella cultura classica, ossia l’idea che sia possibile recuperare il livello di civiltà raggiunto dal mondo antico, magari superarlo, ma che sia comunque impossibile andare oltre un determinato limite, segnato sostanzialmente dalla non modificabilità della natura umana e dei rapporti fra uomo e natura. Quindi l’Umanesimo, nonostante abbia mostrato un’evidente fiducia sulle capacità umane e una spiccata vocazione pedagogica che rimanda all’idea di perfettibilità dell’uomo, si muove fondamentalmente all’interno di una visione ciclica e classica della storia segnata dalla dinamica ascesa-declino-recupero, alternativa rispetto a quella proposta dal modello della storia universale tardoantica e medievale.

Un aspetto molto dibattuto dagli storici, soprattutto dalla fine dell’Ottocento, è l’atteggiamento del movimento nei confronti della Chiesa, quindi del Cristianesimo e della dimensione religiosa, poiché venne attuata la semplificazione di un dibattito decisamente più complesso e articolato. Di conseguenza alla scuola storiografica ispirata ai valori laici dello Stato liberare e talora a un esplicito anticlericalismo, che individuava nell’Umanesimo la matrice di tali valori, si contrappose una lettura che ne evidenziava invece la forte tensione religiosa e l’aspirazione a contribuire alla riforma della Chiesa in direzione del recupero della purezza del messaggio evangelico, della tolleranza e della libera discussione in maniera di dottrina.
A tal proposito si può affermare che, sul piano della filosofia della storia e quindi della concreta prassi storiografica, gli umanisti, facendo proprio il canone storiografico classico finivano inevitabilmente col proporre modelli di comportamento incompatibili con il messaggio evangelico. Un esempio è costituito dal “medaglione”, ossia la biografia di un personaggio storico illustre proposto come specchio di virtù e di comportamento da imitare, che costituisce uno dei generi storiografici di maggiore fortuna durante il periodo umanistico. Solitamente nel medaglione erano evidenziati il coraggio e il valore, l’ambizione, il desiderio di primeggiare, la sete di fama e gloria, tutto affiancato dall’amore di patria o di parte, dalla capacità di usare alternativamente la forza e l’astuzia, la vendetta e la magnanimità e di subordinare la scelta dei mezzi al conseguimento dei fini, tutte virtù e comportamenti che appartenevano all’antropologia classica, ma non a quella cristiana.

Fondamentalmente con l’Umanesimo venne rimesso in discussione il rapporto fra due concezioni profondamente diverse della vita, quella pagana, con doppia componente classica e germanica, e quella cristiana, la cui problematica convivenza costituisce uno dei caratteri rappresentativi della civiltà occidentale. Durante il Medioevo tale convivenza si era sviluppata in direzione di una lenta e spesso ambigua, tuttavia efficace rimodulazione dei valori propri del mondo classico e germanico in senso cristiano. A tal proposito basti pensare alla cristianizzazione della guerra attraverso la mistica cavalleresca degli ordini militari, all’idea di guerra giusta e di crociata, alla politica attraverso l’unzione dei sovrani e all’elaborazione del concetto di translatio imperii (trasferimento del potere). Con l’Umanesimo, che rifletteva sul piano culturale i profondi mutamenti in atto nelle strutture economiche, sociali e politiche dell’Occidente (crisi del sistema feudale, rinascita delle città, ascesa della borghesia, costruzione degli Stati nazionali), si avviava un movimento opposto alla religione, in direzione dell’affermazione dell’autonomia della politica, concepita come regolazione dei rapporti fra individui e gruppi da parte del potere. Questa autonomia, terminato il lungo e tortuoso processo che avrebbe percorso tutta l’età moderna, si sarebbe tradotta, nel corso dell’età contemporanea, in pretesa di superiorità e volontà di omologazione.

6. Tendenze e interpreti della storiografia umanistica

Una tale linea di tendenza, che poneva l’accento sul distacco della politica dalla religione, non era tuttavia ben definita e univoca e furono pochi gli intellettuali che seppero coglierne la direzione e metterne in luce la portata dirompente. Tra questi è importante la figura di Machiavelli, oggi generalmente riconosciuto come il fondatore della moderna scienza politica, che nei suoi Discorsi sottolinea la funzione basilare della religione come struttura portante del corpo politico, indicando lucidamente nella religione “civile” dei romani un esempio da seguire e individuando, al contrario, nel cristianesimo e nei valori da esso propugnati la causa prima della degenerazione della vita politica.

Machiavelli

Partendo da tali premesse Machiavelli propone, con assoluta coerenza, nel Principe un modello di homo politicus che, partendo dall’analisi dell’accettazione della realtà effettuale della natura degli uomini e della società, deve imparare a contare esclusivamente sulle proprie virtù e sulla fortuna; a scegliere i mezzi unicamente in base alle proprie capacità di conseguire i fini, senza cura dei precetti morali astratti; a essere contemporaneamente volpe e leone, generoso e spietato, pronto a mentire, ingannare e tradire qualora le circostanze lo richiedano; a fare uso strumentale e spregiudicato della religione. Quindi, con estremo cinismo, egli poneva l’attenzione su una questione cruciale per il processo di modernizzazione, il rapporto cioè fra le ragioni della politica, che coerentemente con la cultura umanistica erano ricercate nella visione del mondo della cultura classica, e quelle della morale “corrente”, identificate con il messaggio cristiano. Nei secoli a venire la discussione politologica e la pratica politica dell’Occidente continueranno a confrontarsi con il problema di configurazione dell’equilibrio fra queste due polarità, con quello di assorbimento e annullamento dell’una nell’altra attraverso la riproposizione di modelli teocratici e con la sacralizzazione dello Stato.

Particolarmente significativo appare il fatto che per Machiavelli la comprensione della realtà effettuale, da cui devono essere ricavate le categorie e le regole dell’agire politico, deve basarsi sull’esperienza diretta degli affari pubblici e soprattutto sulla lezione della storia. In quest’ottica il passato rappresenta per il Segretario fiorentino, che ancora una volta recepisce la lezione della cultura classica, uno sterminato campionario di exempla dal quale (considerato che la storia si ripete continuamente poiché gli impulsi che fanno agire gli uomini sono in fondo sempre gli stessi) si possono trarre utili insegnamenti per affrontare in maniera adeguata i problemi del presente. In definitiva si può vedere come, sin dalle origini della modernità, politica e storia sono inscindibilmente connesse e la riflessione sulla natura e sui fondamenti del potere e dell’agire politico deve orientarsi seguendo le indicazioni date dalla bussola della storia.

L’Umanesimo recupera la filosofia della storia e le finalità assegnate alla conoscenza della storia ancora una volta dalla cultura classica, riproponendone i contenuti e i modelli stilistici. La storia che è stata prodotta dagli umanisti è in linea di massima la ricostruzione dell’eterna vicenda della lotta per la conquista del potere e dell’infinitamente vario intreccio fra azione consapevole di uomini mossi dalla virtù o dal vizio, dalla passione o dal calcolo e dall’imprevedibilità della fortuna. Dunque lo storico che vuole consegnare al futuro la memoria ha il compito di disporre in ordine cronologico gli avvenimenti, metterne in luce le cause, le conseguenze e i nessi, costruire accurati profili psicologici dei protagonisti e riconoscere infine il suo ruolo al fato.
Tuttavia è importante sottolineare che gli umanisti non si limitarono a riprodurre in maniera meccanica e passiva il modulo storiografico classico, al contrario alcuni di loro, in maniera particolare gli italiani, seppero arricchirlo soprattutto in direzione di una più raffinata capacità di analisi e di comprensione del peso esercitato dai fattori economici, diplomatici e psicologici nella lotta per il predominio. L’acuto riconoscimento dell’importanza di tali fattori traduceva sul piano della ricostruzione storica la peculiare evoluzione economico-politica verificatasi nella penisola nel corso del basso Medioevo.

A partire dall’XI secolo e con largo anticipo rispetto al resto dell’Europa, in Italia, tenendo tuttavia conto dell’economia ancora largamente agricola e fondata sull’autoconsumo e sullo scambio, si erano sviluppate ampie aree di robusta economia monetaria alimentata da diffuse e articolate attività manifatturiere, commerciali e finanziarie. In più sempre in Italia si era verificata la tendenza di ricostruire strutture statali centralizzate dopo la disgregazione dei secoli centrali del Medioevo, ma questo non aveva dato vita come nella maggior parte dell’Europa occidentale, a una monarchia nazionale, bensì a un mosaico complesso e di tipologia estremamente differente di città-stato e di principati territoriali, perennemente in conflitto per la conquista dell’egemonia, fino alla realizzazione nella seconda metà del Quattrocento di una precaria situazione di equilibrio garantita unicamente dal continuo variare delle alleanze. In un tale contesto, visto anche il sistematico ricorso al mercenariato e ai servigi di quegli autentici imprenditori e signori della guerra che erano i condottieri, la possibilità stessa di sopravvivenza degli Stati italiani dipendeva quasi esclusivamente dalle disponibilità finanziarie e della capacità di crearsi forti alleanze e di indebolire gli avversari, usando le abilità della trattativa diplomatica. Sia l’attività commerciale e finanziaria, che la trattativa diplomatica si fondavano non poco sulla capacità di comprendere la psicologia dell’altro, indovinarne i disegni, i desideri e le paure, al fine di sfruttarli a proprio favore.
Una sensibilità così caratteristica, che dalla sfera delle relazioni d’affari e di potere si riversava su quella culturale e della riflessione storica e politica, fu ulteriormente acuita dalla sequenza di drammatici eventi inaugurati dalla traumatica calata di Carlo VIII, quando l’Italia, che mai in aveva provato tanta prosperità, si trovò all’improvviso al centro delle mire espansionistiche delle monarchie nazionali europee. Di fronte a una situazione dalle proporzioni drammatiche, gli Stati italiani reagirono con strumenti già sperimentati e contrapposero la trattativa diplomatica e il denaro alla determinazione politica e militare francese. Purtroppo tali strumenti si dimostrarono inadeguati e nell’arco di pochi decenni la penisola subì il controllo della monarchia Spagnola.

Al fine del nostro discorso, questo piccolo excursus sulla situazione italiana è necessario a farci capire un ulteriore punto della storiografia umanistica: come spesso accade, la sconfitta militare e politica stimolò sul piano culturale un ulteriore affinamento della capacità di analisi critica degli avvenimenti storici. Di fatto il prodotto più alto e maturo di questa crescita intellettuale fu la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, un’opera che attua una ricostruzione puntuale degli avvenimenti dal 1494 al 1534 ed è sorretta da una capacità straordinaria di cogliere i nessi causali e le interrelazioni fra vicende lontane e complesse che, pur avendo il loro epicentro in Italia, si svolgevano in un quadro ormai dilatato all’intera Europa.

Guicciardini

La Storia d’Italia, maturata all’interno di esperienze e di una sensibilità culturale tipicamente italiane, divenne un modello per la storiografia europea. Alcune dinamiche che si erano precocemente affermate in Italia (diffusione di un’economia monetaria, ricorso a milizie mercenarie in sostituzione di milizie feudali, intreccio fra politiche espansionistiche e politiche di mantenimento, sinergia fra azione militare e azione diplomatica) divennero, nel corso del XVI secolo, comuni a tutta l’Europa e ciò favorì la diffusione oltralpe della cultura italiana, sia pure nel quadro di modalità di ricezioni ed elaborazioni “nazionali” dell’umanesimo fortemente differenziate.

L’Umanesimo rappresenta quindi uno snodo fondamentale nel processo di secolarizzazione e modernizzazione della cultura occidentale, ma sarebbe pericolosamente inopportuno dimenticare che esso diede semplicemente impulso e accelerazione a una dinamica i cui effetti si sarebbero dispiegati pienamente solo nella fase di passaggio fra età moderna e contemporanea, poiché la cultura continuò per molto tempo a rimanere prevalentemente ecclesiastica, ossia prodotta in maggior parte dagli uomini di Chiesa.