Dante Oltre il confine

SUONI E MUSICA NELLA DIVINA COMMEDIA

di Alessia S. Lorenzi

Tutti coloro che si sono occupati della biografia di Dante, cominciando dal Boccaccio, hanno evidenziato il suo grande amore per la musica. Anche nella sua opera più importante, egli mostra questa sua passione facendo uso di simboli e metafore musicali. Ed è proprio attraverso la musica che affronta l’argomento principale del poema e cioè l’Amore di Dio. Nel Medioevo la musica veniva considerata come una conseguenza della grande armonia che regolava tutto il creato e quindi, insieme ai numeri, era spiegata come la naturale espressione del divino. Il filosofo Severino Boezio (vissuto tra il V e il VI d.C.), aveva distinto la musica in Mundana, Humana e Instrumentalis. La musica Mundana era la musica non udibile, delle sfere celesti, affine più al concetto di armonia che a quello di suono. La musica Humana era quella udita da ciascuno, legata all’armonia psichica dell’animo dell’uomo. La musica Instrumentalis era quella prodotta dagli strumenti, compresa la voce umana, considerata strumento  donato da Dio agli uomini. La divisione della musica, quindi, in mundana, humana e instrumentalis, indicata da Boezio, e le scienze del Quadrivio, sono le cornici che circondano la Divina Commedia. L’opera rappresenta un percorso spirituale che porta il pellegrino dal peccato alla purificazione, alla redenzione. Anche la musica accompagna questo cammino. I rumori che si sentono nell’inferno si addolciscono nel Paradiso in cui le anime cantano melodie con le quali deliziano Dante.

Quivi sospiri, pianti e alti guai”

Nell’entrare nel regno dei morti, la prima impressione che Dante riceve è terribile. Qui percepisce il male, le colpe dei dannati, anche attraverso l’ambiente circostante. Nella discesa attraverso i vari cerchi infernali, gli atroci lamenti dei dannati suscitano nel poeta sentimenti di angoscia e paura. Non ci sono musiche che diano sollievo alle sofferenze, che confortino i dannati dai loro atroci destini. Dante cita solo alcuni strumenti: le campane, le zampogne… Si odono solo suoni quasi molesti come il suono del corno del gigante Nembrod (altro strumento menzionato dal poeta): “E ’l duca mio ver lui: “Anima sciocca,/ tienti col corno, e con quel ti disfoga / quand’ira o altra passion ti tocca!” (Inf. XXXI, vv.70-72) Non ci sono armonie o melodie musicali nell’Inferno e non si può nemmeno parlare di musica. Nel regno delle tenebre un canto o il suono di uno strumento sarebbe un grande sollievo per le anime tormentate. Ci sono invece i rumori, angosciosi rumori che dominano i vari gironi: “Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle,/ per ch’io al cominciar ne lagrimai.”  (Inf. III, vv. 22-24) Qui, dice il Poeta, sospiri, pianti e alti lamenti risuonavano in quell’aria priva di stelle, in modo tale che all’inizio ne piansi. Non solo sospiri e lamenti ma lingue strane, pronunce orribili, parole di dolore e imprecazioni di rabbia, facevano da “colonna sonora”. Diverse lingue, orribili favelle, /parole di dolore, accenti d’ira, /voci alte e fioche, e suon di man con elle” (Inf. III, vv. 25-27) Nell’Inferno quindi, più rumori, più “anti-musica” che musica vera che mette ancora più in evidenza la distanza che c’è tra questi “suoni” e le melodie celesti. Una volta uscito dall’Inferno, il poeta sembra quasi sentire il bisogno di un po’ di musica.

La dolcezza ancor dentro mi suona”

Dante uscendo dall’Inferno era abbattuto per ciò che aveva visto, per le scene di sofferenza e dolore di cui era stato testimone. Era sfinito anche per aver attraversato tutto d’un fiato il doloroso regno; aveva assorbito, se così possiamo dire, sofferenza e dolore e nemmeno la brezza che sente sulle sponde del Purgatorio riesce a tirarlo su o a rincuorarlo. Nel Purgatorio, la musica rinasce e assume un valore di rinnovamento e di redenzione; le anime dei penitenti devono ritrovare pace e armonia. Cantare all’unisono, come accade nel canto gregoriano, è simbolo dell’unificazione interiore, dell’espiazione e della riconciliazione.

Quindi, ciò che è assente nell’universo cupo dell’Inferno, dove non esiste un ritmo ordinato, un’armonia e dove niente può ridurre il dolore, compare nel Purgatorio. Il primo canto del Purgatorio è un salmo: le anime lo intonano mentre sono ancora sul vascello. Successivamente, esattamente nel Canto II, esse ascoltano un canto più profano. Il poeta incontra e riconosce, fra tutte le anime, quella di un musicista, del suo più caro amico e insieme a Virgilio viene rapito dalla dolce canzone cantata dal compositore Casella. “Amor che ne la mente mi ragiona’/  cominciò elli allor sì dolcemente,/ che la dolcezza ancor dentro mi suona…” (Purg. Canto II, vv. 112-114). Le anime si fermano commosse e rapite dal canto: è ancora fresco in loro il ricordo del mondo terreno e la nostalgia non è ancora svanita del tutto. In questa cantica prevale la “salmodia” ossia il canto dei salmi che è l’origine del canto cristiano. Ma non è sempre è cantata nella sua forma originaria in quanto si alterna a grida e a gemiti di sofferenza, a parole e a lamenti che caratterizzano il “canto del penitente” che comunica così la sua sofferenza. Si alternano parole (suoni umani potremmo definirli) a canti e poi preghiere e urla. Sì, anche le grida fanno da sottofondo: “Noi eravam tutti fissi e attenti/a le sue note; ed ecco il veglio onesto/ gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? /qual negligenza, quale stare è questo?” (Purg. II, vv. 118-121). Il poeta ha saputo ricavare straordinari effetti dagli armoniosi canti delle donne che si alternano con quegli degli uomini. Bellissimo il momento di Piccarda Donati che canta l’Ave Maria e la melodia non poteva essere che quella gregoriana: “Così parlommi, e poi cominciò Ave Maria cantando, e cantando vanio, come per acqua cupa cosa grave” (Purg. III, vv. 121-123) E ancora la preghiera all’unisono, come una salmodia, le anime andavano “innanzi a noi un poco, cantando ‘Miserere’ a verso a verso” (Purg. V, vv. 23 -24) E poi altri momenti di preghiera: “O Padre nostro, che ne’ cieli stai, /non circunscritto, ma per più amore/ ch’ai primi effetti di là sù tu hai, /laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore/ da ogne creatura…” (Purg. XI, vv. 1-5) E poi ancora canti: “Guidavaci una voce che cantava /di là; e noi, attenti pur a lei, / venimmo fuor là ove si montava. /’Venite, benedicti Patris mei’,/ sonò dentro a un lume che lì era,/ tal che mi vinse e guardar nol potei.” (Purg. XXVII, vv. 55 – 60) I suoni e i canti fanno da sfondo a tutta la cantica, col fine di portare sulla via della salvezza le anime purganti. Nel Paradiso si crea uno scenario completamente nuovo e mentre nel Purgatorio la musica è da Dante  riconoscibile e classificabile perché nota, in quanto fa parte del repertorio sacro, qui il canto risulta diverso, più melodioso, rimanda alla luce e al movimento. Si passa dalla salmodia, propria della cantica precedente, alla polifonia, anche se qualche breve accenno di polifonia si era vista anche nel Purgatorio. In questa luogo sacro si ode sempre meno la parola, nel senso che si comunica ma non si parla. Dante non ha bisogno di chiedere niente perché sia Beatrice che gli altri beati leggono la sua mente. Il dialogo sembra esserci solo per far meglio comprendere il lettore. Il poeta nel Paradiso mette in evidenza tre aspetti fondamentali: la musica, la luce e il movimento Il movimento deriva dal desiderio e dall’amore per Dio, la musica e la luce sono propagazione di Dio. Il Paradiso è un mondo fatto soprattutto di luce e di suono armonioso e sono talmente forti che Dante ne resta annientato. Per lui è un’esperienza talmente forte da far fatica a descriverla a parole. “Nel ciel che più de la sua luce prende /fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende;” (Par. I, vv 4-6) In questa cantica il suono e il movimento sembrano quasi confondersi e la danza diventa fonte di luce e suono. Nel Paradiso la scelta delle armonie, dei timbri e dei suoni sono straordinari. Una voce si contrapponeva all’altra e Dante si riferiva sicuramente a questa combinazione armonica di voci quando dice di aver visto: “la gloriosa rota moversi e render voce a voce, in tempra ed in dolcezza ch’esser non può nota se non colà dove il gioir s’insempra”. (Par. X, vv 145-148). Ma la bellezza più incredibile si ha quando la voce è accompagnata dallo strumento: “E come a buon cantor buon citarista fa seguitar Io guizzo della corda, in che più di piacer lo canto acquista, sì mentre che parlò, sì mi ricorda, ch’io vidi le due luci benedette pur come batter d’occhi si concorda con le parole mover le fiammette.” (Par. XX , vv. 142- 148) E fra canti musica e danze, Dante racconta anche la discesa di Beatrice dal cielo. Tanti sono i suoni e i canti e le danze che Dante descrive nel Paradiso e non avrei lo spazio per raccontarli tutti, mi sono limitata a descriverne alcuni, forse i più significativi o forse solo quelli che mi hanno maggiormente colpito. Ed eccoci giunti al termine. Quando Dante si trova al temine del viaggio la musica si quieta.

Poco prima della visione di Dio, i suoni tornano lontani. Il poeta vorrebbe capire ma le sue “ali” non erano adatte a un luogo così immenso. Fu colpita però la sua mente da una folgorazione tale che riuscì ad appagare ogni suo intimo desiderio: “se non che la mia mente fu percossa/ da un fulgore in che sua voglia venne./”A l’alta fantasia qui mancò possa; /ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, /sì come rota ch’igualmente è mossa, /l’amor che move il sole e l’altre stelle.” (Par. XXXIII, vv. 140-145)