Racconto

Tempo di crescere. Seconda parte.

di Leonardo Macagnino

Pubblicato in Clinamen 12, pag. 32

Tempo di crescere – Ultima parte

Tempo di crescere
II.

Conobbi Andrea Messapica nella metà del mio percorso passionista, quando ormai mi predisponevo sulle sponde della mia età a scrutare la mia giovinezza scorrere placidamente assieme a quella degli altri. Aveva sedici anni, e osservandolo ci si poteva rendere conto – almeno dalla distanza a cui ero io – che non si è tutti giovani allo stesso modo. E non è scontato dirlo, se penso che nel piccolo mondo di commercianti e operai in cui mi ritrovo a zoppicare, tra tutte le sottoclassi meschine di cui è composto, i giovani appartengono a una visione superficiale e, oserei dire, rancorosa della vita in cui vengono costretti dagli adulti. Spesso è difficile rendersi conto di quanti sensi di colpa gravino su di essi. La condanna che patiscono i giovani è di essere giovani, e la scontatezza, che equivale al disprezzo, a cui sono relegati, è la pena inflittagli da chi è stato giovane prima di loro. Una particolarità insolita del mio incontro con Andrea è che avvenne in chiesa. Non tanto insolita per me, che ero già diacono, quanto per il fatto che lui era già un ateo convinto. Normalmente si giustificava dicendo che vista l’assiduità dei suoi amici, non frequentare la chiesa avrebbe voluto dire rimanere da soli, e per quanto riguardava la messa, diceva che nonostante il suo agnosticismo, era una ricchezza intellettuale ascoltare un buon racconto, e una soddisfazione poter dare il torto a un prete sulla sua interpretazione. Seguire il resto delle funzioni era invece, a suo dire, una dimostrazione di rispetto verso il culto dei riti altrui. Dati il suo atteggiamento estremamente laico e le sottili battute dissacranti che non capivo perché compiacessero Don Teseo, avevo l’impressione che in verità partecipare alle discussioni in sacrestia fosse per lui un cinico passatempo, un allenamento mentale a dissentire, criticare, acchiappare il punto debole di una riflessione religiosa per ribaltarla nel parodico e nel grottesco. Incontrava alcune difficoltà solo quando alle discussioni partecipava anche Giancarlo Reo, l’educatore della classe giovanissimi dell’azione cattolica, di cui faceva parte la maggioranza degli amici di Andrea. Le sue riunioni preferite, da quel che mi aveva raccontato qualche altro furbetto della parrocchia, erano tenute per trovare metodi efficienti e ragioni convincenti per spingere i ragazzi a toccarsi il meno possibile, senza ricorrere alla più antiquata e severa intimazione cattolica. Da quanto ne sapevo io, invece, Giancarlo durante la sua dura esistenza arrabbiata aveva affrontato una lunga via crucis repressiva, fino ai quarant’anni, in cui ora lo si poteva vedere dirigere serenamente il coro della chiesa e aver preso abbastanza influenza in parrocchia da permettersi tra la sua cerchia di sbarbatelli di giudicare il male in base alla pazienza che aveva di sopportarlo. Con la corporatura piazzata fin da adolescente, e la testa calda, sembrava non riuscisse a perdere il vizio di innescare una rissa da una qualsivoglia battuta proverbiale che gli fosse stata rivolta, ma la sua devozione paterna e la devozione religiosa del padre lo portarono infine nei recinti sedativi della Lamentevole Vergine del Supplizio. Aveva inoltre l’abitudine snervante di incastrarsi in un sorriso condiscendente quando veniva contraddetto da Andrea. Un facile compromesso tra la voglia di prenderlo a sberle e una sorta di sentimentalismo di inclusione cattolica. Un mercoledì sera in cui il botta e risposta tra i due divenne piuttosto animato sulla questione della salvezza delle anime e sui motivi della confessione, il sorriso di Giancarlo assunse per una buona mezz’ora l’aspetto di una paresi, mantenendosi scolpito tra le guancette rotonde e turgide come due pomodori, sotto lo sguardo fisso e vuoto dei suoi occhialetti ovali. Anche i suoi denti erano particolarmente ovali, ma credo che a tutti quella sera, nel momento in cui il rossore delle guance si espanse per tutto il volto, sembrò che i suoi incisivi divenissero aguzzi e la sua voce assunse inaspettatamente un tono cupo nel momento in cui spalancò la bocca tra le bave sottili per emettere un ruggito che nel contesto soffuso della sacrestia ai più suggestionabili apparve quasi satanico. Andrea aveva infatti risposto all’argomento dell’incontro citando dal pulpito della sua saccenteria da scolaro la questione delle indulgenze, a cui Giancarlo rispose inizialmente con toni ragionevoli, cercando di distrarre il soggetto dalla questione, per poi darsi a uno sfacciato negazionismo. Nonostante i suoi sforzi, Andrea tornava sul tema intestardendosi con nuove argomentazioni, finché al silenzio intimidatorio che Giancarlo gli oppose il ragazzetto cantò: “Metti il soldo nella cassetta che l’anima sale in fretta in fretta…” e all’urlo esasperato del precettore seguì un inseguimento fra le tre navate della chiesa al quale tutti, me compreso, dovemmo intervenire per non permettere al leone di azzannare la gazzella che saltava braccata tra gli inginocchiatoi.
Don Teseo però aveva preso a cuore Andrea così come il resto del gruppo, nel quale vedeva la possibilità di riunire tramite l’oratorio un numero fondamentale di ragazzi che potesse rianimare la parrocchia. Pertanto, sotto richiesta di Ivano, il più alto e di buona creanza cattolica, gli aveva concesso le chiavi del luogo di ritrovo. Da quel che sapevo però utilizzavano la struttura principalmente per nascondere le sigarette e fumare in cortile, e la domenica in chiesa non vedevo le facce nuove che invece cominciavo a vedere abitualmente dietro il cancello del cortile dell’oratorio, durante le mie passeggiate, e mi parve inoltre che tali facce non avessero nemmeno l’aria di esserci mai state, in chiesa. Dopo essersi reso conto di qual era l’andazzo, Don Teseo pazientò finché non riconobbe la nuova e vecchia faccia di Gonzalo Tristo, un ex chierichetto che non si era tolto il vizio di bestemmiare, e che vista la corporatura robusta che aveva già sviluppato all’età di sedici anni, oltre a un’ ostile rasatura della testa e due luccicanti orecchini per lobo che comunicavano che non si sarebbe più tenuta una sberla per bestemmia, inventò una scusa qualsiasi per farsi restituire le chiavi, così da non correre il rischio di farsi ricambiare le sberle per il suo dovere. Ma i ragazzi si erano ormai insediati e avevano cominciato a occupare le scalette d’ingresso dell’oratorio e a utilizzarle come punto d’incontro. La strada durante il pomeriggio era frequentata da chi andava e veniva dalla sacrestia e, per quanto erano esposti, la possibilità che qualche conoscente potesse vederli fumare li intimidiva, meno che Andrea, il quale notavo che si sentiva abbastanza a suo agio fumando sotto gli occhi di chi lo riteneva un sedicenne spudorato. Spesso i ragazzi finivano per passare sulle scalette anche alcune serate vuote del paese, in cui Andrea portava con sé la sua cagnaccia sguinzagliata che girava liberamente nei dintorni mentre il suo padrone se la spassava con gli amici, e abbaiava alle vecchie anime rauche e sporadiche che si ritrovavano a passare loro malgrado per il marciapiede. Un giorno, Concetta, una vecchia assidua e pettegola che dalla morte del marito aveva finito per diventare l’orecchio della sacrestia, aveva comunicato mortificata a Don Teseo, con un tipico tono d’indignazione purista, che le cose nell’isolato della chiesa non andavano affatto bene, soprattutto da quando un gruppo di giovani aveva finito per darsi mazzate di fronte l’oratorio la sera prima.
Durante la novena dei morti del primo novembre, Andrea e i suoi compari annoiati avevano pianificato un bello scherzo alle buone anime fresche di lavanda spirituale che alla fine della funzione attraversavano a piedi quella parte di strada scura per tornare a casa. Mambol Sansone, alto quasi quanto Ivano ma più robusto, aveva le mani abbastanza spesse da sopportare un ceffone della mano tutta tendini e nervi di Gonzalo. Dando le spalle alla gente che imboccava la via e allineando la mano sotto al mento al tempo giusto col palmo rivolto verso la direzione del ceffone, potevano approfittare del contrasto tra le luci arancioni e deboli dei lampioni con l’oscurità della strada per simulare uno schiaffo vero e proprio. Gli altri avevano invece il compito di intervenire nella zuffa e creare confusione per poi separare i due rissosi; escluso Ivano, che per timore delle noie che avrebbe avuto coi nonni una volta saputa la notizia rimase tutto il tempo nascosto come un verme cocolo dietro la 126 blu della vedova all’incrocio di fronte. “Pezzo di emme!…” la si poteva sentire affannarsi nell’ufficio del Parroco, Concetta, la mattina seguente, “ci va a dire il piccoletto e poi ci tira uno sganascione!… E quiddh’altro poi – oh, Don Teseo – le peggio parole, mentre si tirava dietro con la faccia ‘mezzo le mani… E come io!, e la comare Tina, e l’Adriana vediamo questa scena – ‘sciamu!’ Ci raccogliamo due tre famiglie e cambiamo strada – ma tutti quei ragazzi – Don Teseo – che non mi pento di chiamare lestofanti, malandrini! – che sono saltati giù dall’oratorio – dall’oratorio dico io! – manco fosse ‘na bisca, un bar o un bordello… Oh, madonnina mia – che cos’è che dico in chiesa?! – si sono lanciati in gruppo, un po’ su di uno, un po’ su dell’altro a farci le feste! E meno male ch’è intervenuto Tiziano, figlio del Bottazzo, che faceva lo sbirro – che lo dico io come sarebbe andata a finire sennò!”
Non ci mise molto Don Teseo a capire che dietro la casualità dell’evento c’era una perfida combutta, ma anziché arrabbiarsi, cosa che gli venne facile all’inizio, una sera raggiunse l’oratorio e rivelò cos’era arrivato a pensare di loro con una scontentezza tale che i giovani provarono vergogna e abbandonarono le scale come luogo di ritrovo notturno. Solo la domenica dopo messa Andrea aveva conservato l’abitudine di accendersi un toscano intero sulle solite scalette, aspettando che Mambol e Francesco Canenegro, ultimi due malinconici, lo raggiungessero per fargli compagnia. Mentre aspettava che salutassero Don Teseo, il coro e Giancarlo, Andrea passava il tempo ad atteggiarsi col sigaro e dimostrare ai passanti le sue capacità di fumatore nonostante la giovane età. La primavera dello stesso anno a Mambol e Francesco si aggiungeva un piccoletto indesiderato, grassoccio e coi capelli alla spina che affascinato da quella magra figura ribelle seguiva di soppiatto i due amici, pensando che facendosi accompagnare da loro Andrea lo avrebbe finalmente accettato. Era un giovanottello esemplare, con gli occhialetti e la voce piccolina che aveva da poco passato la comunione, e che ora, raggiunta una certa maturità sacramentale, pensava di poter passare da Andrea dopo ogni messa per calarsi in gola un tiro del suo toscano. Camminavo proprio da quelle parti, una domenica, sulla via di casa, quando ascoltai una conversazione simile fra il piccolo Federico ai piedi della stretta scalinata dell’oratorio e Andrea, avvolto dal fumo al centro delle scale, con attorno sul pianerottolo gli altri due suoi amici: “Perché non mi fai buttare un tiro?”
“Perché non vaffanculo?”
“Guarda che io ho dodici anni!”
“E vatteli a comprare.”
“Non ho soldi.”
“Chiedili ai tuoi.”
“Non me li danno per le sigarette.”
“Di’ che sono per la gelatina.”
“Non voglio dire bugie, ho appena fatto la comunione.”
“E allora che mi rompi le palle.”
Fu una conversazione essenziale, finché Federico non sembrò convincerlo, proprio quando ero a pochi metri dall’oratorio, e Andrea, da quella specie di trono di scale dal quale si sporse, gli passava tre quarti di sigaro tra le dita, mentre il fumo denso e bianco alla luce del sole gli percorreva il dorso della mano esile. Si fermò esitante, guardando di sottecchi sotto gli occhiali da sole la mia figura altalenante in toga nera: “È tuo padre quello?” gli sentii dire con tono asciutto.
“Tu non conosci mio padre” gli rispose Federico, con la vocina piccola e grassottella, come se gli uscisse in un fischio dalla gola compressa; mentre rimaneva dubbioso con le dita tese verso quelle di Andrea.
“È ciccione con gli occhiali?”
“Sì”, e con uno scatto della nuca puntò la faccia di poker dell’onesto e indifferente Mambol, seduto proprio alla destra di Andrea, per capire dal suo sguardo se l’amico stesse cercando di fregarlo.
“Allora è lui” trasalì falsamente, “è uguale a te”. E Federico ritirò rapidamente le dita, se le passò sulle tasche come se fossero unte e si girò verso di me, battendosi le mani sulle natiche, questa volta, come se fossero impolverate.
“Buon giorno, Sacerdote!” mi salutò Andrea, sollevando il sigaro con entusiasmo teatrale.
“Non lo sono ancora… Buon giorno, comunque” risposi assecondandolo bonariamente.
“A buon rendere allora, e auguri!” e riportandosi il sigaro tra i denti, la sua faccia scomparì in due boccate pesanti di fumo che lasciò fuoriuscire dalla bocca senza prima trattenerle.
“Fatti la scorza, zeppolotto”, gli sentii dire poi quando li superai e davo ormai le spalle all’edificio. “Se non hai le palle per fumare in pubblico, che minchia cominci a fare.”
A quel punto Federico squillò in una serie di contestazioni frantumando le parole su uno spartito di toni sottili e irregolari, agitandosi come un topolino, per cui non riuscii a capire la sua risposta; ma dal tono asciutto con cui Andrea continuò il diverbio, prima che fossi troppo lontano per ascoltare il resto, capii per ultime queste parole: “Se vuoi cominciare chiedilo a qualcun altro… Non darmela a me questa colpa!, che sono troppo giovane per farmi scrupoli.”
Dubito però che sapesse fumare il sigaro, nonostante tutte le mosse che potessero farglielo credere – una mimesi probabilmente ispirata a un personaggio di qualche film che gli aveva fatto una considerevole impressione. E inoltre credo di avere esagerato all’inizio delle mie riflessioni nel giudicarlo un nichilista. Il ragazzo era semplicemente scettico e ragionevole, e dopo aver superato lo scetticismo religioso ed esserne uscito abbastanza convinto, aveva la presunzione di essere scettico e ragionevole su qualsiasi cosa.
L’estate seguente al piccolo episodio che ho appena descritto, mi offrii per dargli un paio di settimane di ripetizioni di latino, ovviamente a titolo gratuito, poiché né la mia condizione di passionista, né il grado di confidenza che sentivo di avere con Andrea, mi permettevano di pretendere denaro.
Il suo attuale programma scolastico era molto più avanti rispetto alle mie lezioni, ma sembrava che per pigrizia non fosse nemmeno mai riuscito a imparare completamente la prima declinazione, e che con improbabili stratagemmi e traduzioni ad orecchiam fosse riuscito a mantenersi sul cornicione della sufficienza fino a quell’ultimo anno, in cui la sua professoressa volle punire la sua indolenza. Non si tratteneva dall’evocarla con le peggiori ingiurie che si possano dare a una donna per bene quando gli passava per la mente il vero motivo per cui ci incontravamo quelle mattine. Aveva infatti preso i nostri appuntamenti per l’aspetto più ludico, e non poteva fare a meno di sovvertire la mia serietà in umorismo, e non riusciva a risparmiare i miei insegnamenti e le mie considerazioni dalle sue battute; i suoi difetti di pronuncia e accento li riteneva delle varianti soggettive, e il significato precario delle sue traduzioni delle interpretazioni dell’animo. Confesso a me stesso che non mi dispiaceva passare delle ore con lui, soprattutto perché mi sembrava piacevole osservare che la mia serietà non era infastidita dal suo umorismo per la particolare precisione della sua comicità. Nonostante le sue battute potessero sembrare improvvisate, notavo che tra i miei discorsi si incastravano con intelligenza sottile, e persino quando una volta, non sapendo cosa rispondere a un mio rimprovero, tirò fuori una pernacchia, mi sembrò che in quell’occasione non ci fosse una risposta sbagliata più consona e intelligente.
Si divertiva a sfidare continuamente la mia educazione. Ogni giorno di quelle due settimane arrivavo a casa sua in bicicletta puntualmente alle otto di mattina, e al mio rigore reagiva con un ritardo di almeno dieci minuti. In poche parole, il suono del campanello al mio arrivo era la sua sveglia, e preceduto dal cane, che passando la testa nella ringhiera sbucava dall’alto con le orecchie tese, si affacciava sonnolento e in mutande dal balcone della sua camera come se in tutte quelle mattine non si aspettasse di trovarmi di sotto. Dopo avermi fatto entrare tornava di sopra a lavarsi e darsi alla sua routine, mentre a me lasciava il compito di preparare il caffè in balìa delle scodinzolate festose della sua cagnaccia. Quando prendevamo il caffè mi incitava, alla mia seconda tazzina, di versarmi lo zucchero con lo stesso cucchiaino che avevo precedentemente messo in bocca, e nonostante gli avessi specificato il fastidio che provavo ad avere il suo cane intorno, Andrea non si premurava di metterlo fuori. Anzi, manteneva aperta la porta del giardino e apriva anche quella del balcone al primo piano, così la cagnetta si dava a una ronda zelante tra i due lati opposti della casa, passando sbarazzina per il salotto e la cucina con la coda gonfia e ricurva come uno spolverino, ticchettando con le unghie sul pavimento e mettendo in difficoltà la mia concentrazione. Non quella di Andrea, piuttosto precaria. Nonostante ogni mattina tornasse giù dalla sua routine del risveglio con entusiasmo e diligenza impressionanti, a libri aperti le sue intenzioni svanivano con la stessa irruenza e facilità.
La cagnetta d’altronde non avrebbe avuto motivo di sorvegliare il giardino se non fosse stato per una gatta pezzata che passava languidamente lungo il muro. “Quell’impertinente”, mi spiegava Andrea “ne ha già prese parecchie da Babushka”, il suo cane. “Si intrufolava in cucina per rubare il possibile. Mi chiedevo perché continuasse a tornare – poi mi sono accorto che ha quattro gattini nascosti in quella casetta là”, mi raccontava arrampicandosi agile dalla ringhiera del piccolo giardino al muro, con la gatta che gli si strofinava addosso affusolando la coda, e la cagnetta gelosa che ringhiava e saltava arpionando il muro di porfido con le unghie scure. Poco oltre la pizzeria dietro al giardino, incastrata tra due balconi sulla sinistra, c’era una piccola mansarda abbandonata con una porta rossa, spalancata e arrugginita. Lì, osservando attentamente si poteva notare fare capolino un piccolo gatto dalla testa grigio fumo e il musetto marrone. “Sono almeno quattro” disse Andrea. “Cioè – ne ho contati quattro finora. Da quando li ho scoperti, la notte faccio un paio di salti per dargli da mangiare. Ma sono timidi – si nascondono, scappano via!” mi raccontava, a cavalcioni sul muro.
“È pericoloso” dissi io.
“È pericoloso” ripeté Andrea, facendomi il verso “più che altro perché questa gatta mi si mette sempre in mezzo a strusciarsi!”
“Non andranno più via, così” lo avvisai, mantenendomi col mio caffè sulla soglia della cucina.“Non andranno più via, così” lo avvisai, mantenendomi col mio caffè sulla soglia della cucina.
“Ma se mi vengono a chiedere cibo e acqua perché dovrei negarglieli?”
“Tutti i gatti fanno così.”
“Anche le persone lo fanno.”
“E i proprietari della pizzeria non dicono niente?”
“Questa è la mia parte di muro, possono dire che gli pare.”
“Quindi hai deciso che questi gatti sono tuoi? Babushka non sembra tanto d’accordo” ridacchiai, accennando verso il cane, che osservava il gatto col corpo teso verso l’alto.
“Io non mi prendo mica niente. Quando andrò via di qui – perché un giorno lo farò – allora qualcun altro gli darà da mangiare. Se non saranno mio fratello o i miei genitori, allora andranno a cercarlo altrove. Ma niente mi lega a questi gatti se non il fatto che hanno fame e io ho del cibo.”
“E cosa ti lega a Babushka?” gli chiesi, come interrogassi un bambino per farlo esprimere sui propri interessi.
“Babushka è il mio cane, perché un giorno ho deciso di adottarlo.”
“Sembri molto convinto.”
“Lo sono.”
“Ma se un giorno te ne andrai, chi penserà a Babushka?”
“A Babushka ci pensano i miei, perché ormai sta in casa e abita qui e nessuno ha più niente in contrario.”
“E com’è che hai deciso di adottarlo?”
“Perché mi andava.”
“Eh, ma se sapevi che saresti andato via un giorno, perché lo hai preso?”
“Perché non ci ho pensato e non sono cazzi tuoi. Passami un biscotto, per favore.”
“Ah – la passione vede tutto eterno, ma la natura umana vuole che tutto finisca” sospirai.
“Che?!” rispose Andrea, permaloso come un proiettile.
“Niente, citavo…” dissi, adocchiando il fondo della mia tazzina.
“Beh, le citazioni stanno sui libri – te li sei già finiti i biscotti?”

Gli porsi un biscotto e lo avvicinò alla gatta. Questa lo afferrò bene in bocca, fece un immediato retro front e sgambettò agile prima sul muro del giardino, poi risalì lungo i margini del tetto della pizzeria; scomparve verso sinistra dietro il parapetto e riapparve scendendo il muro consunto della mansarda con controllo e in perfetto equilibrio. Una piccola testa nera si sporse accanto a quella grigia sulla porta e in altri due salti la gatta fu dentro.
Il venerdì mattina della nostra prima settimana di ripetizioni Andrea era molto preoccupato perché la gatta non era ancora passata a ritirare i pezzetti di formaggio che aveva lasciato sul muro del giardino per i cuccioli. Gli dissi di non darsi troppa pena e che probabilmente aveva trovato un partito migliore, ma a fine lezione uscì in giardino e improvvisò un richiamo con dei miagolii stonati a cui sentimmo rispondere prontamente con dei miagolii lamentosi. Andrea si diede lo slancio con un piede sulla ringhiera del pianerottolo e saltò arrampicandosi sul muro. Si mise a cavalcioni e guardò in direzione del suono: “Eccola lì! Vieni – guarda! È chiusa nella rimessa della vecchia Cicia.”
Lo seguii impulsivamente, portando goffamente entrambi i sandali sulla ringhiera e addossando il petto e i gomiti pesantemente sul muro. Potevo vedere la gatta scura seduta malinconica dietro la zanzariera della rimessa nel giardino accanto.
“Com’è finita lì?!” chiesi io, cominciando a risentire del mio peso.
“Te lo dico io” mi fece, Andrea “quella vecchia scema l’ha accalappiata e l’ha sbattuta dentro. Magari con l’intenzione di farla morire di fame, visto che non ha il coraggio di accopparla.”
“Ma cosa dici?! Perché dovrebbe farlo?”
“E che ne so. Perché è cattiva – ti dico io quanti grattacapi mi ha dato quella da bambino. Magari Mina le andava a rubacchiare in cucina, lei stufa l’ha acchiappata e l’ha messa dentro.”
“Chi è Mina?”
“La gatta. Ho deciso di chiamarla così.”
“E da quando?”
“Da ora. Mi è venuto in mente adesso. Gliela faccio vedere io a quella stronza”. Tenendosi saldo con le mani ai lati del muro si portò sui piedi in uno scatto e proseguì verso il giardino della vicina gattonando quattamente. Il cane cominciò a mugolare ansioso. Mi scapicollai giù come potei e corsi fuori dalla casa seguito al trotto da Babushka e con un sandalo che rompendosi mi batteva sul tallone come una ciabatta. Mi tirai su i pantaloni di levantina chiari, mi sistemai la polo nera e suonai alla casa accanto.
Mi aprii una vecchietta piccolina con gli occhialetti rotondi, i boccoli di rame tinti e sfatti, e l’aria indifesa nonostante gli occhi socchiusi e le labbra arricciate che comunicavano diffidenza.
“E tu che ci fai qui, randagia?! Non sei dei Messapica, tu?”
“Buongiorno, signora, faccio ripetizioni al figlio, infatti. Non è che ha visto una gatta che magari ha girato qui nei paraggi per un po’?”
La signora sembrava confusa, come momentaneamente sprovvista di una lucidità che faceva fatica a recuperare.
“Ma io infatti, dicevo, che ho visto quattro gattini – uno arancione, due ‘ianchi, unu nero – e la mamma che vedevo sempre intorno poi non l’ho vista più.”
“Noi abbiamo sentito miagolare dal suo giardino.”
Dallu giardinu miu?!”
“Sì, signora.”
“Venga venga… Fuori tu, cagnaccia!”
“Torna a casa, Babushka.”
I movimenti repentini e i toni ansiosi e indaffarati dell’anziana signora, comparati alla sua condizione solitaria mi fecero pensare che l’unica attività a cui si dedicava dovesse essere la propria casa.
Quando uscimmo nel giardino soleggiato, vidi con la coda dell’occhio la sagoma di Andrea svicolare via sul terrazzo della pizzeria con un’agilità fantomatica, mentre i miagolii lamentosi della gatta si intensificarono.
“Ecco – ecco… Senti?!” fece la signora. “Ma da dove provengono vorrei proprio sapere – da dove provengono…”
“Vediamo nella rimessa” dissi io.
“Oh, eccola lì! Ecco percé ‘sta scami, pareddha!… Esci fuori, beddha, essi!” e dopo che la vecchia Cicia aprì la zanzariera, la gatta ebbe un attimo di esitazione, come se avesse paura di finire in una trappola peggiore, poi scivolò fuori velocemente e saltò via sul muro. Tutte e quattro le teste dei gattini si affacciarono tristemente dalla mansarda abbandonata.
“Ecco lì, vedi?!” mi fece la Cicia meravigliata come una bambina “dicevo io – uno nero, due bianchi e uno arancione – ma come fanno a essere così! Se la madre è mezza marrone – mezza… Di tutti questi colori che non si capisce…” disse portandosi la mano debole e senza posa alla fronte. “Eh, una volta, sai… C’erano tanti gatti qui intorno… Poi sono spariti tutti.”
 
“Perché li ha avvelenati” continuò Andrea quando tornai in casa seguito da Babushka, che mi aveva aspettato fuori dalla vecchia Cicia per tutto il tempo.
“Non hai bisogno di essere irruente per risolvere le cose” gli risposi. “E la vecchia non aveva nemmeno colpa.”
“Eh, ma chissà come ci è finita lì dentro. Magari è così rincoglionita che ha chiuso la rimessa con dentro la gatta e nemmeno se n’è accorta.”
“Magari…”
“Me la ricordavo più stronza. Chissà com’è che si diventa più buoni quando s’invecchia.”
“Credo che ci si rassegni, Andrea. E non si sente più l’esigenza di difendersi.”
“E da chi?!”
 
Di solito, alla fine della nostra lezione preparava un secondo caffè e metteva fuori dei biscotti; tagliava il toscano a metà e accendeva le due parti per entrambi, che fumavamo di fronte al camino spento. Intorno al mezzogiorno la cucina era molto luminosa. La luce che penetrava le tende sdrucite rendeva fosforescente l’arancione tenue delle pareti sopra le mensole. Alcune parti della casa che ero riuscito a vedere avevano un aspetto trascurato. Immaginavo fosse dovuto alla frequente mancanza dei genitori di Andrea, oltre alla noncuranza che lui riservava a quest’aspetto. Sulla mensola del camino rimaneva sempre nello stesso punto un saggio su Che Guevara che gli aveva comprato il padre, e di cui non aveva terminato la lettura, poiché lo riteneva pedante e per “comunisti lecchini”. Anche il cane riposava dalla sua ronda e si adagiava sulla porta del giardino raccogliendo ad occhi semichiusi il sole del mezzogiorno.
Dimostrava un vivo interesse, Andrea, quando parlavamo di filosofia e teologia durante quella mezz’ora. Rispetto alla noia che sembrava soffrire durante la lezione di latino, la sua mente si infiammava e gesticolava vivamente col mezzo sigaro in mano, che più che dargli una posa stavolta sembrava essere utilizzato come strumento su cui scaricare il troppo entusiasmo. Anche se capivo benissimo che le mie teologie gli servivano per le sue considerazioni critiche, lo spirito genuino e inesperto con cui venivano accolte solleticavano il mio, che al contrario sentivo già esperto, e vecchio. Dopo poche lezioni pensavo infatti che le nostre conversazioni fossero uno dei principali motivi che mandavano avanti i nostri incontri, mentre l’altro doveva essere la possibilità di prendere in giro una persona abbastanza seria e istituzionalizzata. Non so se la mia barba e gli occhialetti, e i due combinati alla mia erre moscia contribuissero a farmi ai suoi occhi un’immagine così divertente da dissacrare, ma dalla mia parte – anche se non so se la cosa sia dovuta alla mia incapacità di insofferenza – il suo carattere irriverente e in casi osceno sembrava partire da un animo così delicato e innocuo che non riuscii in nessun modo a sentirmi offeso, o ferito. Credo che quando ci si accosti a intelligenze così pure, la comunicazione prescinde dalla parola e scivola sull’intenzione; essa fa parte dell’intelligibilità dell’animo.
Non ricordo quali aspettative mi fossi fatto sulla sua famiglia, ma conoscendola mi resi conto di quanto la realtà di Andrea fosse malinconica e solitaria. In conclusione delle nostre lezioni mi invitò con noncuranza a rimanere a pranzo, riferendomi sprezzante che era un’idea della madre per ripagarmi il disturbo. Non credevo fosse il tipo che si sentisse in debito, viste le considerazioni dell’animo di cui andava tanto fiero; e giustificò il morale di quel giorno dicendomi che nonostante fosse felice di avermi a pranzo, era abbastanza stizzito per il motivo, considerato da lui privo di calore ospitale e materialista. La verità è che aveva già provato a invitarmi a pranzo nelle giornate precedenti, ma non mi lasciai mai trattenere, e per il motivo spiegatomi poco prima mi sembrò abbastanza cortese stavolta lasciarmi invitare e conoscere quale suo amico.
Ripulimmo il camino dalla cenere dei sigari, ci lavammo bene le mani e aprimmo tutte le finestre della cucina; dopodiché apparecchiammo la tavola, e al ritorno dei suoi genitori mi ritrovai circondato da una famiglia di lavoratori in un ambiente casalingo piccolo borghese da cui Andrea si escluse taciturno, e in cui io ero abbastanza abituato a sentirmi a mio agio vista la mia abitudine durante i miei viaggi di sopravvivere della cordialità altrui.
Pranzammo nella luminosissima cucina, mentre il gatto ci guardava placidamente accovacciato sul muro del giardino e il cane lo osservava disteso all’ombra della veranda; il quale, mantenendo la posa rilassata e l’affanno leggero, non diminuiva la sua attenzione verso il cattivo ospite; come una guardia che rimaneva in calma e sicura attesa di poter punire il trasgressore nel territorio della sua giurisdizione. Pare che non fossero soliti cacciare fuori il cane durante il pranzo, ma, nonostante Andrea fosse contrariato, era l’unica soluzione perché non mi abbaiasse squillante accanto alla sedia o mi sbavasse sui pantaloni di cotone per un po’ di cibo dalla mia mano. “Babushka è fatta così” disse la madre di Andrea melliflua e mortificata. “Lo pretende da tutti gli ospiti”, mentre io davo la colpa alla mia inefficace insofferenza.
Alle due e trenta del pomeriggio la luce del sole attraversava tenuamente le tende sottili colorando di arancione le pareti bianche attorno al tavolo della cucina. Credo che la signora per l’occasione avesse svuotato il frigo e la dispensa. Aveva cotto farcito e condito, e aveva incastrato perfettamente tutto in tavola. Continuava a interessarsi con premura e curiosità eccessiva alla mia funzione istituzionale e sociale, compensando il disinteresse del resto dei commensali. Soltanto il nonno, alla mia destra, all’altro capo della tavola rispetto al pater, un contadino dalla pelle rossa e corpulento, mi toccava un attimo sulla spalla o richiamava comunque la mia attenzione chiedendomi se conoscessi quel tizio o quell’altro – elencandomi di ognuno il suo peccato simbolo, come l’ubriachezza o la promiscuità, con un tono semi rassegnato e reticente di chi voleva farsene giudice virtuoso – , o per onorarmi cantava un ritornello di qualche pezzo forte del coro della chiesa. Alla mia sinistra, invece sedeva il figlio maggiore, che sembrava avere col pater un rapporto di sopportazione reciproca tipico di due uomini che necessitavano l’uno dell’altro per svolgere non so quale tipo di affari, e che assieme al suo socio quindi accompagnava gli argomenti che discutevo assieme alla madre con alcune considerazioni di contorno; almeno fino a quando, cercando di sviare la conversazione dai miei interessi ecclesiastici, commentai il saggio del Che Argentino sulla mensola del camino, che Andrea non aveva ancora finito di leggere. Il pater, che sedeva con l’aria di chi il posto a capotavola se lo fosse conquistato, a differenza del nonno, a cui invece era stato concesso perché io avevo preso il suo, intervenne parlando della sua fedelissima visione dell’eroe libertario, saldamente ancorata a un’ideale giovanile settantino. Non potei fare a meno di dissentire parlando del governo a cui Cuba era stata lasciata in mano, e continuammo a discutere compostamente della cosa (senza che nessuno pestasse i piedi all’altro) mentre la signora riempiva gli spazi vuoti che lasciavo nel mio piatto, finché Andrea – che mi era seduto di fronte – dopo aver allungato le mani a centro tavola uscì da quel suo cupo silenzio.
“È vero che i preti si toccano?” chiese con nonchalance, versandosi l’insalata nel piatto.
Gli altri non erano pronti ad accogliere la domanda quanto me, a cui avrei fatto a meno di rispondere se non fosse che la gravità del suo tono di voce e la solennità con cui si versava l’insalata avevano lasciato in tavola un silenzio troppo lungo per essere ignorato.
La madre terminò definitivamente di riempirmi il piatto e cominciò a mangiare con costanza.
“Possono farlo” risposi con cautela.
“E non è peccato?”
“Se lo fanno perché sono uomini no, se lo fanno per il piacere della carne, invece sì.”
“Tu perché lo fai?”
“Non ho detto che lo faccio.”
“Lo fai?”
“Non sono tenuto a risponderti.”
“Allora lo fai. E se un prete lo fa perché è uomo e pensa a un altro uomo?”
Portai la forchetta sul bordo del piatto cercando una risposta, ma non me ne diede il tempo: “Io penso che a tutti capiti di pensare all’altro sesso, non dico per menarselo, giusto per capire se gli piaccia o meno. Tu ci hai mai pensato, ma’?” e guardò a destra.
Andrea aveva il tono flemmatico e insolente della provocazione, ma lo nascondeva sotto la recita del ragazzetto ingenuo.
La madre pensava definitivamente al suo piatto, e dopo un paio di rantoli di incertezza disse:
“Mah” con uno scatto di voce “io posso provare stima per un’ altra donna… ammirazione per la sua bellezza, ecco!…”
Non la lasciò terminare:
“Io qualche volta ho pensato a come sarebbe con altri uomini – chi lo sa” disse portandosi la forchetta al mento, guardando in alto e assumendo una rapida posa teatrale da pensatore, poi tornando a mangiare come se niente fosse.
“Ma poi ci hai ripensato, giusto?” chiese la madre, titubante.
Alla fine del pranzo, il pater, come se l’avesse sfilata da una mazzetta, sbirciò nel borsello in salotto e tirò fuori con due dita una banconota da cinquanta euro, porgendomela col braccio teso e il corpo che tendeva di profilo. Interpretai quel gesto come una sorta di punto simbolico alla nostra conversazione a tavola; l’ultima parola definitiva con un gesto che sarebbe dovuto essere fuori discussione. Replicai informando lui e la consorte, che tanto insisteva perché accogliessi il denaro, che vista la mia condizione da passionista non potevo accettare i soldi come un pagamento, e che quindi, se avessero insistito nel porgermi del denaro, avrebbero dovuto insistere per una donazione alla cassa per le famiglie bisognose della comunità. Così trovammo un compromesso tra la loro coscienza di debito e la mia di missionario.
In due giorni sarei partito per il Portogallo e non avrei rivisto Andrea per molto tempo. Nel frattempo non mi preoccupai nemmeno se avesse passato il suo debito, visto che, soppesando la mia e la sua età, in fin dei conti la ritenevo una sciocchezza. Ero cosciente anche del fatto che non avevo avvicinato Andrea al latino né più né meno che alla mia fede, così da buon amico che mi rimaneva essere – poiché escludo la mia funzione di mentore e confessore – gli strinsi saldamente la mano, gli diedi una pacca sulla spalla prima di uscire di casa, mi raccomandai e scesi le poche scalinate per il cancello. Mentre recuperavo la mia bici e montavo in sella, Andrea esclamò accigliato e con un tono seriamente preoccupato: “Ma perché ti metti i sandali se poi ti suda il culo?”