Racconto

Tempo di crescere. Ultima parte.

di Leonardo Macagnino

Pubblicato in Clinamen 13, pag. 20

Tempo di crescere – Prima parte

Tempo di crescere – Seconda parte

Tempo di crescere
III.

Mio nonno una volta mi raccontò di una donna romana divorziata che dopo aver ereditato dalla madre un piccolo terreno nella baia di Pestanache si trasferì in paese per prostituirsi e costruirsi coi guadagni una casa al mare per la vecchiaia. “Si è presa la verginità di mezzo paese” raccontava, mentre passavamo lentamente sotto al suo balcone, costeggiando il Canale della Volpe durante uno dei pomeriggi tiepidi in cui mi portava a passeggiare in auto. “E all’altra metà sapeva comunque come levargli lo sfizio. Lo vedi da te che bella casa si è messa su, quella gran donna”, diceva, al me dodicenne, come a un piccolo alieno a cui mostrasse con leggera malinconia ed entusiasmo le attrazioni del luogo; come a un turista della vita, quale ero, a cui spiegasse con conservata innocenza le meraviglie che il mondo riservava a chi continuava a vivere. Per le leggi odierne molte delle villette costruite sulla baia sono abusive; dato che in passato non c’era nessuna normativa che proibisse ai muratori che possedevano un terreno sulla costa di piazzare dei tufi avanzati dal materiale che qualcun altro aveva già pagato.
Non sono mai riuscito a confessare a me stesso, prima di questa riga – figuriamoci agli altri – il fascino che trovavo nelle storie di mio nonno, Sebastiano Paternoster. Uno tra i tanti Sebastiani chiamati come il Santo patrono di Pestanache, di cui fortunatamente non ho ereditato il cognome, poiché di parte di mia madre, altrimenti sarebbe stato la caricatura della mia nativa vocazione. Sapevo bene che comunicare quanto mi raccontava il nonno ai miei genitori, di modesta ignoranza, anche solo per chiederne l’effettiva veridicità, per loro avrebbe voluto dire essere attratto dall’argomento e quindi proibirmi di vederlo; così come denunciarlo simulando una bambinesca riprovazione per i suoi racconti mi avrebbe escluso dai pomeriggi tiepidi a passeggio in auto, visto che l’idea di santità dei miei genitori prevedeva un monaco casto tanto nelle orecchie quanto nei pantaloni. Anche se avrebbe potuto farmi correre il rischio di essere come ne ho conosciuti tanti in seminario: pecorelle candide, dall’aria ebete e la lingua candita; la testa piena di teologia sterile come filastrocche, con la mente divisa da una lucida e scontata dicotomia del bene e del male. Sermoni didascalici che non valgono il pulpito da cui vengono pronunciati, destinati ad avere poco a che fare con l’uomo (semmai con la sua negazione).
Mi abituai presto, quindi, ai monologhi di mio nonno, la cui esaustività ed eloquenza saziavano le domande che tenevo per me; pertanto ascoltavo e basta, subendo la violenza dei suoi racconti. Era stato un bambino precoce, mio nonno, figlio di un contadino che era diventato un soldato; di una contadina che divenne operaia. Orfano della piazza – per cui doveva ritenere scontato, per quanto potesse curarsi di questo pensiero, che un ragazzetto di dodici anni fosse abituato a sentire parlare di bische e bordelli. All’epoca a Pestanache c’erano quattro bische, una per ogni testa malavitosa del paese; oltre ad alcune biscazze minori, in cui magari si giocava a biliardo. Mio nonno diceva che era una fortuna che cinquant’anni fa la legalità al sud fosse ancora un eco, o prima o poi si sarebbe finiti per lavorare sotto qualche investitore del nord, se non, peggio, straniero. Invece, chi del luogo voleva cominciare a investire doveva imparare a giocare a carte, e chi della generazione seguente poteva farsi chiamare Dottore per il paese doveva il titolo su per giù alla fortuna del padre. Mio nonno aveva cominciato a guadagnarsi le mance dei vincenti facendo il palo sotto ai locali delle bische, in strada. Il suo compito era salire di sopra quando avvistava i carabinieri e avvisare i giocatori perché cambiassero il poker in una partita a dama. Dopodiché, una volta che imparò a giocare, riuscì in due anni di scommesse a ricomprare da Rocco Santo Stefano i terreni che la madre aveva venduto per mantenersi dopo la morte del marito. Non li aveva venduti però a Santo Stefano, ma ad Antonio Petracca, il macellaio, che li aveva ceduti a Patrizio detto Femminella – di cui non so il cognome – chiamato così per il suo vizio di tradire la moglie con le scapolone del quartiere, per ripagarlo di un debito accumulato a carte; venduti poi a Sebastiano Pizzuto, che li aveva scommessi e persi contro Sebastiano Campana – uno muratore, l’altro scavatore e trivellatore di pozzi artesiani – finché quest’ultimo non li perse con Rocco, e nel frattempo mio nonno aveva accumulato abbastanza denaro per ricomprarseli. Ad altri andò peggio. Era noto un Sebastiano Artero, che era riuscito per un pelo a non perdere la casa, ma che per il resto dei debiti dovuti al Santo fuggì in Albania e non tornò finché la moglie e i figli non li saldarono. Oltre a riscuotere però Santo Stefano era abituato anche a perdere. Al bar in cui sono solito fermarmi a bere il mio amaretto toccò la stessa sorte dei terreni di mio nonno; solo che tornava tanto spesso nelle mani del vecchio Rocco quante le volte in cui se lo giocava come piccolo jolly, tra le altre proprietà, con cui provare a tornare in gioco. Anche in questo caso, la sorte volle che il locale gli tornasse e che se lo tenesse una volta per tutte, perché l’eco della legalità aveva cominciato a prendere la consistenza del vento, e dopo l’omicidio di un poverocristo chiamato Sebastiano e detto Mangiatopi per mano di Peppino Vitella, con cui aveva un debito di 1500 lire, alcune bische di Pestanache furono assaltate dalle guardie, mentre altre chiusero per evitare il guaio o si ritirarono in circoli più ristretti e segreti. “E ne valeva la pena?!” si infiammava mio nonno. “Tra tutte le teste calde che avevano fretta di farsi valere, alla fine si è fatto valere 1500 lire! E che cosa si aspettava poi, da quel taccagno del Mangiatopi, che l’unica volta che si è indebitato è finito pure ammazzato per una miseria”. Prima della sentenza in tribunale, l’avvocato di Peppino lo rassicurò raccomandandolo di chiamare la moglie e dirle di buttare la pasta. “Avvocato” gli rispose Peppino, dopo che il giudice lo condannò a trent’anni, “e mo ‘sta pasta quando ce la mangiamo?!”
Non ricordo più quanti nomi e nomignoli mi fece mio nonno durante le sue storie di clandestinità, ma erano abbastanza da farmi pensare frequentemente, guardando i giovani seduti intorno a me, durante il mio amaretto, che la fortuna che ignoravano di avere mentre parlavano di divertimenti e soldi, e le giovinette con le labbra rosse facevano a gara di femminilità, con le gambe accavallate tra le loro minuscole conversazioni neoborghesi, non le dovevano principalmente alle qualifiche dei padri ma ai vizi, o alle ambizioni dei nonni. Persino il gioielliere Sergio Bruno, che aveva tre negozi – uno dei quali a Pestanache e gli altri non so dove – e una fonderia, doveva l’inizio delle sue fortune alle gesta del vecchio padre; che aveva giocato fino a scommettersi l’anima, e dopo averla persa si rimetteva in gioco coi proventi delle rapine, finché le carte non cominciarono a girare bene e gli consentirono di mettere da parte una discreta ricchezza, lasciata alla moglie, nel frattempo si rimetteva in pari con la legge. Dopo essersi aperto la prima piccola gioielleria, d’altronde, Sergio capì che la sua mansione poteva andare bene a braccetto con l’attività più o meno comoda dell’usuraio, e l’incentivo che tale attività gli aveva procurato lo divise investendo tra la moglie e il figlioletto, che appena ventenne si ritrovava già a gestire una gioielleria scintillante tra le piccole case colorate di Pestanache, e a dare feste e promozioni di lustro nell’appartamentino di sopra, assieme al gruppo di spacconi con cui si ritrovava frequentemente al bar dei Santo Stefano. A guardare questo piccolo rampollo glabro coi capelli fonati e la testa stretta tra le spalle, viene da chiedersi se la sua faccia losca e l’andatura scomposta non siano l’eredità genetica manifesta di due vite passate di ostilità e strozzinaggio, nascoste da un’apparenza prestigiosa. E viene da chiedersi anche se quel mostriciattolo fosse ignaro di tutto l’ambaradam lestofante che si portava dietro, oppure avesse fatto le domande giuste per sapere perché fosse tanto diverso dagli altri. Non credo d’altronde che sia comune avere un nonno loquace tanto sulle nefandezze degli altri che sulle proprie, come lo era il mio, che della sua vita biasimava solo la consueta frequentazione di bordelli alle spalle di mia nonna; una colpa morale più che religiosa, che la devozione di mia nonna non meritava, come riteneva ad alta voce al me dodicenne, durante i nostri pomeriggi: “L’uomo è meschino” sentenziava in dialetto, “e può solo rimproverarselo. È quando uno non pensa di essere meschino che nascono i problemi. Te lo immagini uno stronzo che crede di non puzzare?”

Un uomo che non avevo mai sentito nominare in paese era il vecchio Messapica, nonno di Andrea, poiché sembrava che nella società dei vecchi non ci fossero figure rilevanti che non meritassero una ‘nciuria. Questo mi faceva pensare in primis che se si era troppo comuni non si poteva entrare a far parte dell’ipermondo creato dai personaggi soprannominati, le cui peculiarità sembravano muovere le dinamiche folcloristiche, e in parte fittizie, del paese. Oppure, la mia seconda ipotesi è che il vecchio Messapica faccia parte del gruppo di chi le ‘nciurie le inventa, e le assegna. È certo però che non furono clementi col suo ormai sepolto padre, che viene ricordato col soprannome non molto criptico di Ballonaro, per l’abitudine a raccontare fregnacce, o balle, per cascare nella ridondanza. La gente diceva, testimoniava mio nonno, che predicava meglio del prete e raspava peggio del diavolo.
Quasi tutti i pomeriggi, al mio passaggio dalla Piazza della fontana di Romolo e Remo, in direzione del mio amaretto, il vecchio Messapica se ne stava sotto al penultimo sole a chiacchierare e a giocare a carte con gli amici fuori dal piccolo club autogestito accanto all’edicola, e già mentre mi avvicinavo accostando la chiesa madre del Santo Martire e Patrono Sebastiano, mi salutava intonando la voce a una sorta di melodia corale: “Oh!” trasaliva bonariamente, sollevando il braccio dalla sua sedia. “Marziello!”
“Mattiello” lo correggevo io, sfruttando l’eco della piazza vuota del pomeriggio, e camminando lungo il muro della chiesa per non infierire sulla mia gamba.
“Eh!” ribatteva lui convinto. “Nassiello!”
Dopodiché si vantava con gli amici di essere in confidenza con un uomo di cultura (e non più di Chiesa), improvvisava una o due frasi in latino estrapolate dalla funzione domenicale della sua parrocchia, come uno scolaro che volesse fare buona impressione al maestro, e mi parlava con occhi seri e un sorriso compiaciuto da chiacchierone del discreto uomo di lettere che sarebbe diventato il suo nipotino.
Quelle che Andrea mi rivolse sulla porta di casa furono le ultime parole che gli sentii pronunciare per molto tempo. A dire la verità non mi preoccupai per nulla di lui, e le volte sporadiche che mi ero trovato a Pestanache, prima di stanziarmi, non lo avevo mai incontrato né visto da lontano. Dopotutto non mi aspettavo neanche il contrario, che mi venisse a trovare o che mi salutasse per una svista. Ero già abituato a chi lascia il paese per la città e, al loro precario ritorno, i cosiddetti paesani diventano una macchietta di indifferente disprezzo, o vengono trattati con irrisoria sufficienza. Se non fosse stato per suo nonno credevo che mi sarei anche concesso il piacere di dimenticarlo, fino a quando, un anno fa, mentre ero seduto al mio tavolino col mio solito amaretto, e il bassotto sotto la sedia, a fissare Venusia uscire fuori dal bar, lo vidi balzare nella direzione opposta, lanciando la sua sagoma con un piede sul pianerottolo, e prima di me accorgersi di una moretta col nasino a punta e il culetto sporgente accanto all’entrata, che gli si rivolse istantaneamente con tono indispettito, come se si aspettasse che prima o poi sarebbe sbucato, e gli avesse teso una trappola coi suoi occhi delusi e la sigaretta in mano per tutto quel tempo. Andrea aveva una barbetta rossiccia da ventenne, e i capelli folti, scuri e poco curati. Indossava un maglione largo e marrone, consunto, e lui era abbastanza magro che l’indumento gli sembrava posato sulle spalle come a una gruccia. Non ero nemmeno completamente convinto che fosse lui, finché non parlò alla moretta con una modalità e dei temi che gli erano ancora molto riconoscibili.
Vista la sorpresa che mi fece l’apparizione di quel capellone rossiccio e mingherlino, non badai a quello che la moretta gli disse con la sigaretta tra le dita e la bocca, che teneva lì a succhiare come una sorta di subitaneo ansiolitico, come un criceto col suo ciuccetto d’acqua; ma sono abbastanza sicuro che Andrea gli rispose prontamente con queste parole: “Ma che pensavi – che ti stessi intorno al culo come a un pallone da basket? ” e dicendo questo si era piegato sulle ginocchia come un giocatore di pallacanestro che cercasse di marcare l’avversario. “Ci sono tanti giocatori più bravi di me, qui intorno. Tiralo in aria e vedi chi lo acchiappa per primo”, concluse con tono asciutto, rialzandosi e sventagliando la mano facendo penzolare la manica larga del maglione. Si accorse di me fuggendo da lei, con un gesto di spalle e uno sguardo diffidente che mi fecero pensare al movimento preciso e delicato di un gatto indispettito, come se individuarmi fosse stato un elegante escamotage per svignarsela dalla potenziale cattiva reazione della ragazza, e sedersi al mio tavolo fosse una scusa per aspettare che quel visetto deluso finisse la sigaretta e sgomberasse l’entrata. Mi informò che aveva cominciato gli studi da qualche tempo, a Roma (come la mia Venusia) ma non disse altro; inoltre, non cambiò di tono, tra gli altri fatterelli che ci raccontammo, quando seppe che avevo rinunciato all’ordinazione. Aggiunse solo un “hmm…” con aria seria e concentrata, “e adesso cosa fai?” come se avessi semplicemente cambiato lavoro.
Durante il nostro colloquio notavo che alle sue spalle, poco fuori dal porticato, c’era il gruppo di spacconi del figlio di Sergio, e tra questi figurava un tipo pienotto, olivastro e con gli orbitali violacei che ogni tanto cascava a fissarlo. Vista la confidenza in cui non tardammo a ritrovarci, gli chiesi simpaticamente se non fosse un suo amico. Sembrò capirmi al volo. Senza nemmeno voltarsi, mi chiese abbassando repentinamente il tono di voce: “Mi sta ancora guardando?”
“Se parliamo della stessa persona, sì.”
“È un povero stronzo!” esclamò allegramente, portando le braccia dietro la testa e raddrizzandosi sullo schienale, dando quasi l’impressione di rilassarsi, e allo stesso tempo il ragazzo dietro riportò la testa nel gruppo. “Si è beccato un paio di cazzotti qualche anno fa e ancora non gli è scesa. Da quando si ritrova con quei figli di papà è tornato a fare il duro, ma mi sembrano un mucchio di tigri di carta – puf!” e si soffiò sul palmo della mano, come lanciasse dei coriandoli.
Mi tornò in mente la storia di due quattordicenni che si erano picchiati di fronte all’oratorio, e uno di questi prima di menare l’altro aveva farfugliato delle sciocchezze riguardo l’onore e il fatto che avesse messo in giro delle calunnie per mettergli contro gli amici. Comunque, il ragazzo con gli orbitali violacei era quello a cui ricucirono il labbro, mentre Andrea fu quello che dovette vedersela coi genitori dello sconfitto. Pare che la madre lo avesse minacciato dicendogli che lo avrebbe riferito a Don Teseo, e Andrea rispose che avrebbe atteso notizie anche dal Papa. A quest’ultima insolenza, la sera stessa, il padre del malcapitato lo assalì in casa. Presentandosi alla porta dei genitori come qualcuno della parrocchia, appena saputo che Andrea era dentro, spalancò la porta in faccia al padrone di casa ed entrò furibondo a chiedere spiegazioni sull’accaduto. Il ragazzetto rispose solamente che se le era meritate, e prima che l’uomo potesse esprimere la propria con un man rovescio, il padre di Andrea, sentendosi confuso e minacciato dalla brutalità con cui l’uomo si era fiondato in casa sua, intervenne dando inizio a una zuffa che portò di fronte l’abitazione il vicinato e i carabinieri.
“Sono contento di non averla fatta franca” aggiunse a bassa voce e con tono rauco, “solo che dopo tutta quella parapiazza che gli hanno fatto intorno, crede ancora di essere la vittima, e mi perseguita con gli occhi come se io fossi il cattivo”.
Non so quanti dettagli abbia tralasciato nel riportare questa storia, e se la circostanza sia davvero stata di lezione a qualcuno; nel frattempo la bellina all’entrata aveva gettato la sigaretta nel posacenere a colonna accanto alla porta e aveva raggiunto il gruppo di spacconi fuori dal porticato.
“Sta di fatto” disse Andrea, prima di alzarsi, e rischiarendosi il tono della voce, “che il passato è passato. Lui non è meno stronzo di prima e io sono stronzo all’inverso.”
“Non preoccuparti” lo rassicurai, ricalcando su una novità che ancora pensavo potesse stupirlo, “il fatto che io non sia un confessore non vuol dire che non sia capace di capirti: Homo sum, humanii nihil a me alienum puto.”
“Non darti troppe arie”, mi rispose. Si alzò risoluto dalla sedia, mi strinse energicamente la mano con la manica a penzoloni e scosse leggermente le orecchie del bassotto. Prima di voltarsi verso l’entrata, si annusò la mano e disse: “Però puzza eh – cioè puzzate entrambi – è colpa sua o tua?”
Mi congedò con una risata sommessa e scivolò come un gatto dentro al bar, sbracato, nel suo maglione fluttuante, sotto gli occhi del branco fuori dal porticato che si voltò crucciato e come indispettito da un evento inopportuno.

Le volte seguenti in cui lo vidi al bar, notai che non aveva tanto l’abitudine di guardarsi intorno, e prendendo l’esempio della moretta potrei dire che in genere affrontasse l’altro sesso con una timidezza incapace e un orgoglio sfrontato che finivano per metterlo nei guai. Sono i malanni tipici di chi ha una grande pretesa di libertà ma si ritrova costretto nei sobborghi della mediocrità. Una settimana fa sembrava infatti sorpreso di ritrovarsi sedute al bar assieme ai suoi amici Melissa e la sorellina Lauretta. Dopo che venne a salutarmi con una pacca sulla spalla e due delle sue battute flemmatiche sul mio aspetto trascurato, lo vidi svoltare l’angolo del porticato attraverso le vetrate e la sua sfrontatezza divenire fagotto di timida noncuranza. Avevano posto un tavolino al lato dell’entrata e, accanto, avevano accostato al muro uno dei divanetti, sul quale si erano sedute le due ragazze tutte vestite alla buona maniera delle visitatrici della domenica. Era infatti il 23 dicembre e come ogni anno, durante il periodo natalizio, erano tornate da Brescia per ritrovare i parenti paterni e Gonzalo, che gli era seduto accanto, nell’unico posto che era rimasto libero sul loro divanetto nero, col gomito poggiato sulle stampelle al muro e il piede sano disteso su quello ingessato.
Raccontare di questo soggetto richiederebbe molta più pazienza della quale dispongo, poiché, visto il suo protagonismo a Pestanache, dovrei sbrogliare la matassa delle storie che lo circondano e cercare il vero; oppure raccogliere uno dei fili – il più convincente o il più accattivante – e dargli un’enfasi di verità. Ma per il primo caso, come ho già detto, la mia attenzione per quel rossomalpelo non equivale alla pazienza che ho di raccontarlo, e per il secondo caso invece, mentire è un vizio che mi inquieta. Posso dire però quanto so ed è risaputo, e cioè che Gonzalo Tristo era sempre stato un attaccabrighe e che al momento era tormentato da una esasperante crisi emotiva. Orfano di un padre di cui nessuno faceva domande, era cresciuto con la nonna e la madre ma, poiché entrambe lavoravano senza sosta, passava la maggior parte del tempo nei giardini del Calvario, accanto a casa sua, dove aveva imparato a picchiare passando per le mani dei ragazzi più grandi.
La madre lo aveva mandato a servire messa per allontanarlo un po’ dalla strada. Nel corso della stessa domenica lo guardavo fare il chierichetto in chiesa e lo ascoltavo bestemmiare durante le mie passeggiate pomeridiane sul Calvario.
Aveva la parlata spiccata dei vecchi e lo si poteva ascoltare spesso, quand’era coi suoi coetanei, dispensare verità con aria disillusa, come chi avesse sperimentato la vita con gli occhi degli altri; degli anziani del Calvario, si intende, sostituiti inconsapevolmente al modello paterno.
Aveva imparato invece a trattare con le rogne addomesticando le lingue degli ubriaconi, e lo si sentiva spesso infatti vantarsi di aver fatto la voce grossa con qualcuno, magari con qualche carabiniere, o di aver sferrato qualche colpo per zittire chi si fosse permesso una parola di troppo; oltre a sentirlo parlare del suo argomento preferito: la criminalità organizzata, di cui conosceva i dettagli come uno storiografo, che propinava a chi gli desse erroneamente l’occasione di farlo. Era impossibile non notare inoltre la libido audace che lo contraddistingueva dal resto dei suoi amici, che dimostrava spesso con battutine controverse oppure con esplicite dichiarazioni molto volgari di quello che avrebbe voluto fare alla malcapitata, senza tenere per sé neppure i gesti.
Aveva conosciuto Melissa e Lauretta l’estate che mi feci insegnante per Andrea, nella caletta del Tabarano, a pochi chilometri dalla mia Santa Lucia, attratto perlopiù dal petto procace della sorella più grande. Ci provò con lei per due estati prima di ottenere un bacetto misericordioso sotto gli occhi del cugino, che li aveva sfidati a farlo. Ma da quando Lauretta aveva raggiunto la maggiore età, e la stessa misura della sorella, Gonzalo aveva cambiato obiettivo. Se la gustava con gli occhi e le battute ammiccanti, la moretta, quel pomeriggio, e trattava entrambe con una solennità da pappone, anche se col gesso al piede. Avevo infatti accennato alla crisi esasperante che lo aveva assalito negli ultimi tempi. Un anno prima aveva conosciuto una ragazza di un paese vicino con cui aveva cominciato un’intensa relazione che in tre mesi aveva concepito un bambino. Una bambina, per essere esatti, che la sua fidanzata aveva deciso di tenersi per sé tre mesi prima che nascesse. Si era allora pentito di aver raccontato i fatti suoi a tutto il paese e aveva cominciato una lunga battaglia legale per l’affido condiviso. Nel frattempo aveva sviluppato una specie di depressione che lo portava a commuoversi e a dare attenzioni eccessive ai figli degli altri. Il piede infatti se lo era rotto mentre cercava di prendere in braccio la figlia grassoccia di Mauro, il barista che lavorava dai Santo Stefano in libertà vigilata. Nonostante la piccola avesse già 6 anni, le buonissime intenzioni di Gonzalo erano quelle di prenderla in braccio e cullarla immedesimandosi nel padre che gli impedivano di essere. Purtroppo però, appena sollevate le ginocchia ci aveva rimesso un metatarso. Ma passiamo ad altro…
Il caffè veniva servito ai ragazzi dal piccolo Lorenzo, il figlio dodicenne del minore dei Santo Stefano, che il padre mandava a lavorare dal suo prestanome durante le vacanze scolastiche. Si muoveva tra i tavolini con incertezza ma rispondeva alle battutine del gruppetto con la sicurezza dell’oste esperto, puntando ogni tanto gli occhi sorridenti sulla faccia di Andrea, come per dimostrargli una spontanea simpatia.
Andrea appariva come una piccola testa bruna quasi in disparte tra i suoi amici che si erano assiepati intorno alle ragazze tra tavolini e sedie. A parte Gonzalo Tristo, che lavorava in un autodemolizioni, tutti gli altri, chi in provincia chi un po’ più in là frequentavano l’università. Francesco Canenegro, se devo ricordare chi solitamente stava intorno ad Andrea qualche anno fa sulle scalette dell’oratorio, era quello che gli rimaneva abbottonato a sinistra. Un ragazzetto con gli occhiali, moretto e flaccidino; timido e con l’andatura di gomma, che col passare degli anni aveva raggiunto una sagoma mastodontica, e che ora, con la muscolatura avanzata e i capelli lunghi e neri da gran leone, non passava mai inosservato. Avevo saputo – tramite un affidabile peccatore di cui racconterò solo il peccato – che il giovane Canenegro aveva l’ambizione di candidarsi a sindaco sfruttando la benevolenza dell’associazione cittadina in cui capeggiava il padre, che sarebbe diventata una lista civica quando fosse stata abbastanza benvoluta e riconosciuta che il sospetto di un interesse politico sarebbe stato minimo. A questo scopo faceva la conoscenza delle persone più facoltose dei dintorni, e indagava su di loro, collaborando nello studio commercialistico del padre, e aguzzava la vista quando passava dalle affissioni dei necrologi, poiché aveva iniziato a guadagnarsi il rispetto dei più presenziando alle veglie di un qualche loro defunto parente. Nessuna delle persone a cui aveva reso le condoglianze finora aveva mai mancato di salutarlo in altre circostanze. Oltre alla muscolatura aveva sviluppato un gusto preciso per le giacche chiare tendenti al marrone, gli occhiali da vista con la montatura sottile, e aveva perfezionato una posa riflessiva che nonostante la sua età non mostrava nessuna traccia di ostentazione. Riflettendo dal mio tavolino, l’idea che la sua figura mi comunicava era che avesse trovato una posizione comoda con cui gestire la propria stazza senza sembrare un ammasso di muscoli cascato su una sedia, e in particolare, avevo la chiara sensazione che tra le ginocchia accavallate e la mano posata sulla bocca provasse più a trattenere le emozioni che ad apparire affascinante.
Chi in genere rimaneva alla destra di Andrea sulle scalette dell’oratorio era Mambol Sansone, ora seduto scomposto con l’aria annoiata e i capelli lunghi e chiari sulle spalle, che osservava muto e comunicava con gli occhi i momenti in cui era attento alle discussioni e ragionava sugli argomenti del gruppo, e i momenti in cui si perdeva nei propri pensieri, abbandonando lo sguardo nel vuoto di fronte a sé. Nonostante avesse lasciato la tunichetta da chierichetto, non mancava mai una veglia di Natale, a cui partecipava con la sua numerosissima famiglia. Un fratello e due sorelle, un numero sostanziale di cugini e cinque o sei zii che occupavano silenziosamente metà della navata laterale sotto il quadro del Cristo deposto. Un gruppo alquanto devoto di ispanoamericani che da quel che avevo notato mischiavano ideali socialisti con una ferrea moralità cattolica. Forse questa educazione gli aveva creato un po’ di confusione, perché non ho mai avuto l’occasione di ascoltare una sua opinione, né qualsiasi altra modalità di interloquire. Dalla mimica che riuscivo a cogliere dalla mia posizione, notavo che le sporadiche volte in cui muoveva leggermente le labbra sottili duravano pochi secondi, e le mani, prima di tornare a intrecciarsi sulla pancia, si alternavano in movimenti simili e inversi per la durata precaria della frase: mentre la sinistra grattava il ginocchio sinistro, la destra portava i capelli dietro l’orecchio destro, e quando la sinistra passava dal ginocchio all’orecchio, la destra aveva già massaggiato la sua parte di coscia.
Questo finché Andrea non sollevò repentinamente i toni della conversazione, agitandosi nel suo solito maglione come un fantasma delirante e accendendo un dibattito per cui Mambol dalla sua reticenza sprofondò tra le spalle larghe in un silenzio completo, nascondendosi le labbra sotto un indice che passava ripetutamente sotto al naso. Come in ogni dibattito, però, l’ardire dei presenti viene messo alla prova quanto la loro intelligenza, e mentre c’era qualcuno che si concedeva più o meno a risposte, qualcun altro si lanciava temerariamente, più che contro le idee provocatorie di Andrea, contro il suo carattere. 
“Guarda che in battaglia non conta la stazza – dipende da quanto sei aggressivo, da quanto sei cattivo con l’avversario, da quanto c’hai voglia di fargli male…” Gonzalo informava Arturo ringhiando con solennità, il quale si era disposto su una sedia all’altro capo del divano, coi gomiti poggiati sul tavolino adiacente, e solo per intromettere la propria entità al centro del divano aveva cominciato una conversazione improbabile sul combattimento con Gonzalo. Da quando aveva perso venti chili, Arturo si era accorto di avere anche una buona qualità di capelli biondi e gli occhi chiari e cangianti, che innaffiava col collirio per renderli luminosi in ogni buona occasione. Per essere più concisi, durante la fine della pubertà Arturo aveva ritrovato nei propri connotati delle potenzialità seduttive che coniugava alla sua sensibilità di pianista per provarci con le ragazze. Non era difficile però rilevarne la goffaggine, che sembrava si fosse portato dietro come un handicap, e avevo da sempre notato la sua timida passione per le ragazze da quando suonando dal basso dell’organo guardava con insistenza fuggevole la pallida, sottomessa e pettoruta corista nella cantoria; mentre ora i suoi sguardi erano diventati bassi e taglienti e la delicatezza con cui si sistemava dietro il ciuffo infeltrito era accompagnata da frasi che lasciavano sempre intendere una sfrontata e malriposta malizia. “Che ti pensi che su questo piano due stanno allo stesso livello? C’è sempre chi è più molle…” continuava Gonzalo, mentre Arturo sogghignava e dondolava con gli occhi tra Melissa e Lauretta, non sapendo quale delle due valesse di più la pena interpellare sulla questione.
“Non capisco perché dovrei farmi tanto il culo quando poi mi tocca essere mangiato dai vermi – insomma, uno pensa di andarsene da qui e di essere sfuggito alla miseria e alla noia e invece passa dalla padella alla brace…” irruppe Andrea col suo tono di voce, dalla schiera di sedie di fronte. “Se vogliamo rimanere in tema culinario, Roma è un calderone di noia e ipocrisia, e all’università di ritrovi le teste di cazzo peggiori…”, capii perché un anno fa mi escluse da quest’argomento.
“E dovevi andare in città per capire che sei un coglione?” intervenne Gonzalo, senza che avesse seguito veramente la discussione, ma accodandosi a un contesto generico e rispondendo ai toni accesi di Andrea con una accesa irriverenza. Presero tutti a ridere. Avendo seguito il doppio corteggiamento di Arturo e Gonzalo per quel tempo, non riuscii veramente a capire con chi e per cosa Andrea si fosse inizialmente movimentato in quel turpe sproloquio. Mi sintonizzai al suo discorso mentre guardava fisso nel vuoto, fendendo l’aria coi gesti e delirando in una sorta di monologo cinematografico; come se avesse preso in prestito il personaggio di un film drammatico americano per dare inizio a quella pantomima in cui si sforzava di demolire ogni concetto che gli passasse per la testa. È un difetto dei giovani più audaci riempire le cose di significati, o privarle totalmente di senso.
“E questo sapete perché?!” continuò Andrea. “Perché la società ci impone dei titoli, e per non essere una testa di cazzo qualsiasi uno deve sapersi presentare.”
“Va be’” intervenne Melissa, “ma la città è comunque più grande di qui, ti dà molte più opportunità… e poi non è male tornare a farsi le vacanze.”
“Ecco appunto…” ripartì Andrea.
“Eh – se qui sei un coglione, lì sei un coglione in scala” gli tagliò la strada, Gonzalo, indicando Andrea col palmo della mano nero e la sigaretta tra le dita.
Ripresero tutti a ridere, tranne Andrea, che rimaneva serio e concentrato su quell’improbabile dibattito, come se non avesse sentito le provocazioni di Gonzalo.
“Ma infatti – uno quando deve studia e poi esce e fa quello che vuole – che gliene frega…” intervenne la piccola Lauretta, sporgendosi ballonzolante e con gli occhioni scuri verso il capellone sciatto che gli stava di fronte, e cercando tra una parola e l’altra il consenso del resto dei presenti.
“A maggior ragione, uno si fa i fatti suoi – se questo è il modo per mandare avanti le cose – e poi dovrebbe fottere liberamente e darsi da fare – e invece sparano stronzate mentre fanno la coda per il caffè, si accoltellano le ginocchia durante il chiusone e quando escono di casa pensano a cosa direbbe la mamma… o peggio, il papà. Il problema è che si dà troppa retta agli accademici e poco alle idee – si inseguono l’un l’altro a fine lezione per capire cosa voleva dire il professore e non si danno pace finché non si annotato l’appunto preciso. Gli vale il trenta e lode!… O no, Mambol?!” esortò il suo fedele amico, che annuì in silenzio… “Cui protest?!” improvvisò del latino, che nessuno corresse, per mancanza di mezzi, e di cui nessuno degli universitari presenti si permise di chiedere il significato, per non sembrare da meno a tutta quella sicurezza di sé che Andrea sfoggiava. Gonzalo si limitava a non importarsene. Continuava a fumare in tuta e a giocherellare con le dita unte di grasso posticcio, coi piedi distesi oltre il divano: tirava dalla sua sigaretta, contemplava annoiato la cenere incandescente e ci soffiava sopra per ravvivarla.
“Ma stai scherzando?!” intervenne Arturo, perplesso, dopo un attimo di silenzio.
“Io scherzo finché non vengo preso sul serio, Arturo.”
“Sinceramente” rispose Canenegro, togliendosi il pollice da sotto al mento, “dove studio io non è così alienante” enfatizzò l’ultima parola, scandendola minuziosamente con la sua grande bocca, “come invece descrivi la tua facoltà, sinceramente. Poi, sinceramente, alla fine a Lecce finiamo per riconoscerci un po’ tutti tra noi studenti.”
“Sinceramente?” gli fece eco Andrea. “Non mi prendi mica per il culo – l’importante è essere sinceri nella vita” e gli batté la spalla possente, mentre Canenegro conteneva la rabbia abbassando lo sguardo e virando con gli occhi altrove, con le gambe accavallate e un’ostentata nonchalance.  Anche se, vedendo un ragazzone del genere su quella sediolina di ferro, sotto quel porticato, tutto in lui sembrava contenuto.
“Voi non capite, signori miei” ripartì a gesticolare, Andrea – la sensibilità nei giovani è come una patologia; bisogna sempre trovare un motivo per darsi pena –, “io sto parlando di società! Vi faccio l’esempio di Roma, in cui tu puoi essere chiunque; dallo sciatto scoppiato di San Lorenzo al cardinale; dal colletto bianco a chi non sa dove battere la testa per campare; dallo studente leccaculo al professore che ha una smania per il proprio ego e le ragazze carine, e tutti possono essere capaci di essere qualcos’altro – mentre guardate qui, al sud, la società si divide in vecchi, giovani e scemi del villaggio – e i giovani che rimangono sono l’ombra non troppo lontana dei loro parenti.  Il problema della maggior parte delle persone qui è che si completano nella loro apparenza. E quello che fanno, che è poi quello che fanno il padre o la madre, consiste nel settanta percento della loro apparenza, perché non hanno mai saputo darsi una scelta! E finiscono lì, scaricati nel cesso della vita, senza mai aver vissuto abbastanza… E non vi dico altro!, ci vorrebbe una vita a sfatare tutti i luoghi comuni, e dal momento che sarebbe impossibile vivere senza, perché i luoghi comuni definiscono le nostre paure e calcolano le nostre certezze, le persone mantengono quelli comodi e sostituiscono gli scomodi.”
“A te quella città ti ha fatto scemo, senti a me” intervenne Ivano Rausa, che fino a quel momento era rimasto seduto con lo sguardo fisso di una lince e le gambe elegantemente accavallate ad ascoltare l’arringa di Andrea, tra Mambol e il divanetto delle bresciane.
“Perché sarei scemo?” gli rispose Andrea, dandogli improvvisamente l’attenzione.
“Ché parli come un minchia e pensi di dirla giusta.”
“Adesso che c’hai col mio modo di parlare?”
“Boh – che la porti troppo per le lunghe – cioè di’ quello che pensi e punto.”
“Lo sto dicendo, stronzo – non è colpa mia se non stai dietro a quello che dico. E poi dovresti capirmi, anche tu, che ti ritrovi a studiare a Torino.”
“Ma io mi trovo bene a Torino.”
“Lo credo anch’io, Spilungone, è da tre mesi che hai cominciato l’università e non hai fatto che sballarti in residenza fumando canne di puzzone. Ma lo so bene che fate nelle residenze, voi, malpagati, mi è bastato vedere quelle di Roma. State tutto il tempo a fottere tra di voi e a farvi i dispetti.”
Da un certo punto di vista oggettivo, Ivano Rausa – detto Spilungone dagli amici – lo si poteva considerare il più bello del gruppo; con la sua altezza, la pelle delicata e l’aspetto mediterraneo, veniva ancora vestito di tutto punto della madre, che lo aveva abituato a considerarsi una persona per bene a scapito della sua ottusità, che non traeva vantaggio né dalle imposizioni educative della madre, né dalle usanze religiose dei nonni che gli abitavano proprio sotto casa. Gli indici comportamentali a cui si riferiva erano perlopiù delle abitudini e il suo giudizio si rifaceva invece a delle fissazioni bigotte di cui si faceva un ardito rappresentante, seppur bestemmiando virilmente, cosa che rendeva autentico il suo bigottismo ma lo rendeva colpevole dal punto di vista religioso. Prima che partisse per l’università lo incontravo frequentemente in parrocchia, durante le mie visite, sia alla messa che presso i confessionali, o nell’ufficio di Don Teseo, dal quale andava per concedergli una chiacchierata in cambio di un consiglio laico e merendine e caffè. Dopo aver snobbato l’università per un anno, ritenendo che avrebbe sprecato la sua vita se non si fosse messo subito a imparare un mestiere, si era reso conto che effettivamente non valeva la pena rimanere a Pestanache; soprattutto dopo che il presidente dell’azione cattolica Francesco Monachella, ritenendolo incapace, lo aveva esonerato dall’apprendistato nella sua azienda di compressori, lasciando il povero Spilungone privo di grandi speranze; che rielaborò infine nel sogno universitario che era stato decantato dai suoi vecchi compagni di scuola e vivamente consigliato da Don Teseo.
“Dai, finisci quello che stavi dicendo così non ti sento più, che già mi hai rotto i coglioni.”
“No, vaffanculo – che ci sto a parlare se poi mi rompi le palle.”
“Che se non c’ho capito niente!”
“Perché sei stupido” concluse Andrea con un tono di voce profondo, sporgendosi verso di lui accigliato ed esageratamente concentrato.
“Beh – tappategli la bocca a ‘sto coglione, che ha rotto il cazzo” si sentii dire con distrazione da Gonzalo, mentre continuava a guardarsi attentamente il palmo della mano unto.
Andrea gli rivolse prontamente la parola, dandogli un’occhiata fugace prima di tornare a concentrarsi su Ivano: “Sai, Gonzalo, devi finirla di giocare col tuo buco del culo – guarda come ti conci le dita.”
A differenza dell’amico, Gonzalo colse al volo la provocazione, e inspirando l’aria con decisione tra gli incisivi aggressivi, raccolse una delle stampelle e la sollevò minaccioso; ma Ivano, dopo un attimo di indecisione, riprese la sua parte nella disputa: “E quindi tu sei intelligente…” gli rispose, indicando Andrea con le dita che manteneva intorno alla bocca, pensieroso.
“No, riconosco uno stupido perché lo sono anch’io” gli rispose, guardando fuori dal gruppo e riaccomodandosi sullo schienale.
Confesso che sorrisi dal mio angolo. Solo due persone non capirono la battuta: Gonzalo, che approfittando del momento di ilarità tirò un’occhiata alle mammelle della piccola Lauretta, e Spilungone che dopo alcuni secondi di titubanza rispose: “Va be’ comunque sei un coglione”. Il che suscitò un nuovo zelante momento di ilarità che mi coinvolse per la seconda volta e con cui pensavo stesse interagendo anche il mio bassotto, quando dopo un sussulto, un borbottio da cane, lo guardai sbucare da sotto la mia sedia e tendere lo sguardo alle spalle di Andrea.
“Mazzate, nah!” sentii mormorare dietro le mie.
Voltandomi mi accorsi che il gruppo di spacconi era proprio al tavolo dietro al mio, con anche il giovane con gli orbitali violacei, che come il resto degli amici si era abbandonato a un’espressione di sorpresa, allungando il collo, superbo, per guardare oltre la mia sagoma. Mi voltai un’altra volta guardando nella loro stessa direzione e fuori dal porticato vidi che una berlina cromata che aveva appena imboccato l’incrocio verso la piazza, bloccava il passaggio a una piccola utilitaria scura. Le auto parcheggiate a entrambi i lati avevano ristretto la strada e nessuno dei due automobilisti aveva indietreggiato per l’altro. Mentre realizzavo questa situazione, la berlina cromata aveva avanzato impetuosamente fino a toccare il paraurti dell’altra auto e ne era uscito fuori un uomo alto dai capelli lunghi e brizzolati, e gli occhiali da vista dalla montatura sottile. Le spalle ristrette e le braccia esili dimostravano che aveva superato i cinquant’anni, ma le grosse mani, il petto e il resto del corpo davano l’idea di una vigorosità che non lo aveva ancora del tutto abbandonato. Si avvicinò imprecando verso l’altra auto e fece il giro per affrontare il conducente, il quale si tirò fuori per istinto e rimase in trappola tra il suo sportello aperto e l’auto parcheggiata accanto, mentre quel tronco vecchio e bestemmiatore gli incalzava minaccioso. Il secondo che era uscito dall’auto era giovane, anche lui alto, col petto ampio e dall’aspetto curato; anche lui con la montatura sottile degli occhiali, ma tonda. Già appena sceso dall’auto mi parve di riconoscerlo, ma dopo che gli venne sferrato il primo cazzotto ne ebbi la certezza. L’uomo arrabbiato lo aveva messo alle strette agitandogli contro le manone scure e callose: “Signuria… Signuria!” cercava di stargli dietro, il giovane, umiliandosi nella forma più cordiale e meno adatta alla situazione; e dopo averlo allontanato con una goffa gomitata per proteggersi dalla paura di quel faccione arrabbiato che gli sputava addosso le peggio minacce e ingiurie, venne colpito dritto sul muso, per il quale Federico con la sua vocina minuscola, che sembrò quasi riemergere da un es profondo, urlò: “Ehi – che io c’ho solo diciott’anni!”
“Bisogna fare qualcosa!” trasalì Canenegro, disincastrandosi dalla sedia; ma non si mosse finché non si alzò anche Andrea, che si lanciò subito tra i due a fare diplomazia, mentre Federico continuava a prendere ceffoni e minacce di morte.
“Andrea, aiutami! Dammi una mano, per favore!” implorò Federico, quando lo vide mettersi in mezzo, come se Andrea fosse stato grande il doppio di entrambi.
Canenegro cercava inutilmente di afferrare le braccia al più anziano, quando Gonzalo Tristo gli spuntò da dietro saltellante e si mise a roteare tra i due come un cane imbizzarrito, con le stampelle e il gesso a mezz’aria, saldandosi infine sull’asfalto e cercando di prendere in mano la situazione. “Forza tu, ritorna in macchina! Eros, lascialo perdere, va’ via di qui!”
“Eros – Eros” si sentì da dentro al bar, e uscì Mauro il barista, che raccolse l’uomo per le braccia, tirandogliele dietro la schiena e portandoselo appresso dietro l’auto, liberando il passaggio a Federico. Eros, non potendo più colpire il ragazzo, si rifece sulla sua auto, prendendola a calci, e appena riuscì a liberarsi un braccio, mentre lo forzavano verso la berlina, sfruttò la tensione in cui era tirato il corpo per colpire il lunotto dell’utilitaria di Federico col pugno, come maneggiasse una clava, furibondo, frantumandolo in mille rumorosissimi pezzi.
“Tenetemelo qui – tenetemelo qui – io lo squaglio a ‘sto pezzo di merda!” disse dal suo finestrino, mettendo in moto l’auto.
Tornò indietro sull’incrocio e filò via sul lato sinistro del bar, sotto lo sguardo dimesso degli spacconi seduti su quella parte del porticato. Eros Matamoros, il greco che era stato dentro per tentato omicidio; ex braccio destro del fratello maggiore dei Santo Stefano, fino alla prima confisca dei beni. Non pensavo fosse già uscito di galera ed era abbastanza evidente che nessuno dei ragazzetti, tranne Gonzalo, sapeva chi avevano affrontato.
Sotto al porticato, Mambol Sansone era rimasto su una delle colonne a osservare muto e crucciato la scena, ritenendo probabilmente superfluo un ulteriore intervento; Spilungone aveva rizzato il collo e spalancato gli occhi di lince domandando basito e inutilmente i motivi dell’accaduto, e Arturo aveva preso una cantilena interminabile come un bip… “Nah, ma è un coglione – è un coglione questo qui… È un coglione…”
Melissa irruppe nel trambusto generale col suo accento di Brescia: “Ma nessuno chiama la Polizia?!”
“Melissa”, Gonzalo la guardò severamente, “sta’ zitta…!” le rispose infastidito, mentre era in piedi sulle stampelle, come per educare una ragazzina ingenua.
Le comitive dei caffè avevano chiuso le bocche stupite e riassettato le palpebre, concentrandosi – intercalando dei “cioè”, a introdurre nuove ciance – per distogliere lo sguardo da Federico che veniva scortato dentro col labbro sanguinante da Mauro il barista e un ragazzo barbuto coi capelli tirati dietro, mentre Canenegro parcheggiava la sua auto al lato della strada. Mauro e il ragazzo barbuto avevano portato dentro Federico riempiendolo di premure e spiegazioni, con dietro Arturo e la sua cantilena, che li seguì finché Federico non tornò fuori con una busta di ghiaccio sul labbro… “Ma scusa, è proprio un coglione questo!” cercava conferma dalla vittima, Arturo, che non si azzardava a fiatare.
“Zitto, per favore” gli rispose finalmente, a bassa voce, “che qui c’è il figlio”; ed effettivamente il ragazzo barbuto che aveva accompagnato dentro Federico e che gli rimaneva a fianco osservava malamente Giorgio da quando aveva cominciato la strofa.  È curioso notare che anche in questi casi i figli rimangano orgogliosi dei loro padri, e che le vittime del branco restino remissive, come ad accettare la colpa di essere più deboli, e si rimettano alla grazia di chi ha il potere di riconoscergli il torto subito e non all’empatia di chi potrebbe comprenderle.
Pochi istanti dopo che uscirono dal bar, Eros tornò sfrecciando con accanto, in auto, un altro uomo. Ma non appena fermò l’auto, il figlio barbuto, che fino ad allora era rimasto con gli occhi cagneschi su Arturo, si lanciò fulmineo sulla portiera e gliela mantenne chiusa.
“Levati di mezzo tu, merdoso!, ti squaglio pure a te!” gli urlò il padre.
“Togliti dai piedi” gridò il ragazzo, mantenendogli chiuso lo sportello, con la paura e la grinta di chi cercasse di scacciare un cane rabbioso. “Togliti dai piedi” continuò mentre l’auto finalmente arretrava. “Vaffanculo a chi t’è morto!” lo congedò in conclusione.
Non avevo mai interagito col mio bassotto fino ad allora, e non avrei mai pensato di poter realizzare il mio rapporto con lui, ma alla fine di tutto quel tramestio si girò verso di me con occhi grandi e incerti e ci guardammo per un attimo, come per rispondere alla perplessità dell’altro. Gli spacconi alle mie spalle avevano ritratto i colli chiudendosi con le schiene in una sorta di guscio di gruppo e si diedero a un vociare sommesso. Andrea, nel frattempo, si ritagliò uno spazio di comicità nello sconcerto generale, facendo l’imitazione di Gonzalo che interveniva stampellante per sedare la rissa, roteando su se stesso, facendo ridere chi era rimasto realmente impressionato dalla scena e alleggerendo lo spirito del pubblico del porticato. Un pubblico ridotto rispetto a quanti occupavano le file, nonostante la brutalità delle azioni intercorse si fosse insinuata con invadenza tra le tazzine dei loro caffè. Per gli anziani all’interno del bar, Eros Matamoros era una persona con cui non valeva la pena averci a che fare, mentre i giovani delle mode passeggere discolpavano la loro omertà ritenendo quanto accaduto un fatto inopportuno. Solo un flebile fruscio sull’asfalto passava attraverso il silenzio che si era stabilito tra i presenti, ognuno recuperandosi dalla propria parte d’ansia: il piccolo Lorenzo ammucchiava sul lato della strada i cocci che rimanevano del lunotto dell’auto di Federico, cercando con gli occhi di un cane impaurito lo sguardo solidale di qualcuno che si distraesse un istante dalla propria indifferenza.
 
“Ma come si è risolta quella storia alla fine?”
“Di chi?” mormoravano gli spacconi, tre giorni dopo.
“Di quel ragazzo e di quello che l’ha picchiato” chiese un ragazzetto con la testa rasata e gli orecchini luccicanti a entrambi i lobi.
Dice che il figlio si è messo in mezzo e l’ha fatto risarcire dal padre – pare –, che gli ha scontato la denuncia” disse il ragazzo con gli orbitali violacei, come se parlasse di una procedura burocratica tipica di certe situazioni.
“E da che cosa tutto quel bordello?” intervenne il figlio di Sergio Bruno, parlando da quella posizione scomoda tra le sue spalle.
Dice che si sono trovati sull’incrocio e il pischello non si voleva fare indietro – e gli ha fatto così con la mano per dirgli di fare retromarcia – e all’altro gli è scoppiata la bolla…”
“Bisogna pure sapere stare al mondo…” commentò un altro, un po’ in disparte, che fumava una sigaretta.
“Che poi sapete chi è quello…?” stava per dire il ragazzo con gli orbitali violacei, intonando una voca rauca.
“Lascia perdere” rispose il Bruno, che si atteggiava come chi avesse familiarità con gli innominabili, “non parliamone qui di queste cose”; finché non si sentì dal marciapiede una voce abbastanza riconoscibile.
“È incredibile che persone che studiano così tanto siano poi così coglione.”
“Ma di chi parli?”
“Ma dei professori, no…?! Ci credo che si rinchiudono nelle accademie, certi moccoloni.”
“Lascia perdere – che pure l’università è tutta una mafia. I professori vi fanno studiare cinque-sei testi firmati da loro, si intascano le percentuali e se non dimostrate di averli comprati magari vi bocciano pure. Io ‘ste cose le so, che c’ho contatti.”
“Ti bocciano anche se li compri, e non si fanno scrupoli a farti notare che sei uno stronzo… Ma a proposito – poi a ‘sto Eros non gli sembrava più logico tornare indietro, visto che veniva dall’incrocio, anziché fargli fare a quel poveraccio tutta la strada in retromarcia?!”
“Andrea, non gridare quando fai questi nomi” sentii Gonzalo spiegargli infastidito e con voce trattenuta, “e poi non l’hai visto che personaggio è?!, ti pare che ti metti a ragionare con quello?!”
Erano appena entrati nel porticato e quando mi videro si sedettero al mio tavolino, come se si sentirono in un’ormai scontata confidenza, vista l’esperienza reciproca di pochi giorni prima.
“Ci accomodiamo mentre aspettiamo gli altri” disse Andrea, “poi togliamo il disturbo.”
“Nessun disturbo” dissi io, e incrociai le dita sul tavolo, intorno al mio amaretto, concentrandomi su di loro con pacatezza e solennità, alla vecchia maniera di quando mi interfacciavo alle persone, in tunica nera.
“Forse per te no” rispose, e indicò con la testa alla sua destra, verso il tavolo degli spacconi.
“Che ci vuoi fare, Andrea” intervenne Gonzalo, sistemando le stampelle sotto la sua sedia rudemente e infastidendo il mio bassotto, “quando a uno scemo si dà una scusa per fare la vittima nella sua testa crede di essere un eroe.”
“Fortuna che siete intervenuti voi, l’altro giorno” dissi loro, sviando il discorso in qualcosa di positivo, col supporto gaio dell’uomo adulto, e del prete, che ancora mi riusciva.
“Ma se non era per me e per Mauro, che già lo conoscevamo, penso che anche lui si sarebbe preso delle belle mazzate” disse Gonzalo.
“E le avremmo prese…” disse Andrea, inorgogliendosi sulla sedia inclinata e le mani dietro la nuca, guardando sopra la mia testa con aria da idealista.
“Beh, però è anche vero che è un uomo pericoloso” dissi io, con sicurezza.
“Perché, che ha fatto?”
“Eh – ha sparato in faccia a uno – tentato omicidio. Quindici anni” disse Gonzalo, come se spiegasse qualcosa di risaputo a una persona ingenua.
Andrea sembrò svegliarsi dal sogno in un attimo: “E perché?!” chiese.
“Ché così gli hanno detto di fare. Andrea, te sei stato troppo tempo in giro – queste sono cose che si sanno –, te l’ho detto, a quello non gli regge la testa. È gente che non ha niente da perdere. L’altro giorno ti ha detto bene, capiscimi.”
“Dici che se mi trova in giro mi riconosce?” disse con aria semiseria.
Gonzalo tirò giù gli angoli della bocca: “Mah – tanto lo ributtano dentro fra qualche giorno.”
“E perché?!” chiese Andrea, di nuovo.
Gonzalo alzò le spalle: “Qualcosa combinerà – poi dall’altro giorno si è visto che non ha intenzione di rimanere fuori tanto a lungo. Poi, oh, nel caso si rifà con te, qui c’hai il prete, per l’estrema unzione” e mi indicò ridacchiando.
“Non sono più prete. Veramente non lo sono mai stato” ribadii.
“E com’è che ti sei svestito?” mi chiese tornando improvvisamente serio, come se la battuta precedente fosse stata un modo per arrivare all’argomento.
“Ho perso la vocazione” dissi semplicemente.
“Che te la sei bevuta coll’amaro?!” ridacchiò, “che poi i preti bevono un sacco – sangu’ de l’ostia – ops…” e si portò una mano sulla bocca.
“Non preoccuparti” gli risposi posatamente.
“Comunque sono contento che ti sei svestito, o che comunque non ti sei fatto prete” disse Andrea.
“E perché mai?” gli risposi io.
“Perché così siamo due uomini alla pari. Quando una persona intelligente ne incontra un’altra al di fuori di un’istituzione, è possibile che queste due vadano d’accordo. Ma quando due persone intelligenti si incontrano in un’istituzione in cui si prevede che uno sia subordinato all’altro, allora possono venirne fuori dei bei guai.”
“Il sacerdozio non implica una superiorità rispetto ai fedeli.”
“Dici di no…?”
“Tu, piuttosto, stai attento a non crederti più sveglio degli altri, Andrea, o potresti perdere il senso delle cose. Chi soffre della tua intelligenza a volte pecca troppo d’immaginazione e potresti finire per giudicare la vita per quello che tenta di non essere”. [D’altronde cosa mi vieta di fare ancora la parte del precettore… Alla fine vado solo a puttane.]
Manteneva le braccia dietro la testa con ostentata indifferenza, ma aveva lo sguardo di chi era stato preso sotto scacco; e mentre io sporgevo le spalle verso di lui coi gomiti poggiati sul tavolino e le dita intrecciate intorno al mio amaretto, Andrea, col busto portato esageratamente indietro, sullo schienale della sedia, sembrava cedere un’altra volta a quel sentimento di soggezione che lo costringeva in ritirata. Gonzalo si gongolava tra me e l’amico, pensando forse che qualcuno finalmente lo avesse messo in difficoltà.
“Non c’ho capito niente” disse poi, Andrea, sputando fuori la frase come un dispetto.
Una piccola utilitaria blu con alla guida Spilungone e dentro altre due teste si fermò accanto al marciapiede del bar.
“Beh, andiamo Andrea. Sono arrivati – prendiamo posto.”
“Mi raccomando, Andrea” gli dissi, mentre mi davano le spalle e raggiungevano gli amici che scendevano dall’auto, “semper paratus!”
Mi fece cenno di sì mostrandomi gli occhi che mi parvero gentili e pieni di fiducia.
Ci bole dice?” chiese in dialetto, Gonzalo.
“Che sei un paraculo. Andiamocene, Gonzalo, il mondo è pieno di sinonimi. C’è chi appartiene alla cultura dei vivi e chi si dedica a quella dei morti. Il latino va bene per i quiz della domenica”.
E infatti le azzeccavo sempre, ma non credo sia più il caso ormai di parlare delle mie abitudini, né delle polemiche di Andrea, o dei caratteri, seppur stravaganti, di Gonzalo, Canenegro, Spilungone e Mambol Sansone, di cui ho solo avuto l’occasione di raccontare. Rimetto le mani dietro il mio amaretto e poso i gomiti sul mio bordo del tavolo, mettendomi in disparte, dietro le quinte di questo piccolo palco, che ogni giorno mantiene in equilibrio il susseguirsi di scene perfette: attori di una mimica precisa, loro stessi pubblico, compiaciuti della propria performance. Andrea e Gonzalo passano sotto gli occhi schivi di chi giudica gli attentatori e i risolutori in un’unica forma di colpevolezza, che mette a distanza i molestatori della loro quiete e li aliena nel mondo sordo e sporco che continua a sbeffeggiare la loro esistenza. Nessuno bisbiglia all’orecchio dello spettatore a fianco.