35 millimetri

The French Dispatch: Wes Anderson nel bene e nel male

di Alfonso Martino

Ci sono registi che vanno presi così come sono: o li ami o li odi. Questo dipende dal modo in cui trattano determinate tematiche e come portano un certo tipo di storie sullo schermo dal punto di vista visivo.

L’impianto visivo è fondamentale quando parliamo di Wes Anderson, vincitore del premio Oscar per Grand Budapest Hotel e regista di film come I Tenenbaum, Moonrise Kingdom e L’Isola dei Cani, venerati da una nicchia di fedelissimi del regista americano, capace di spostarsi anche sull’animazione in motion capture senza snaturare il suo gusto per l’estetica e la narrazione sognante.

Con The French Dispatch, Anderson si sposta ad Ennui, città immaginaria della Francia, mostrando la sede di un’appendice di un giornale americano che si ispira al New York Reporter, con un cast che comprende alcuni fedelissimi del regista come Bill Murray, Owen Wilson ed Adrien Brody, affiancati da Benicio del Toro, Timothee Chalamet e Lea Seydoux.

Il film è strutturato a episodi e riprende i migliori articoli di questa testata: il primo vede protagonisti Del Toro e la Seydoux, i quali interpretano un detenuto dalle straordinarie doti artistiche e una guardia carceraria, che diventerà la sua musa.

La pellicola è girata prevalentemente in 4:3 e vede sequenze in bianco a nero in ogni episodio, che mostrano lo stato d’animo irrequieto dei personaggi: l’artista quando ritrae la sua musa nuda su un piedistallo – mai il regista è stato così esplicito nelle immagini – viene ripreso sempre in bianco e nero, mentre le sue opere vengono mostrate a colori, come ad esempio nella scena in cui l’impresario interpretato da Brody mostra i dipinti ai suoi zii.

L’episodio risulta il momento migliore del film, dal momento che Anderson mostra episodi di violenza e immagini forti che mai erano stati mostrati da lui.

Andando avanti nella visione, ci si conforma su uno stile più vicino al regista sia nelle storie raccontate, sia nella regia, pulita e tendente a colori pastello.
Il secondo vede come protagonista Chalamet – qui ancora una volta utilizzato come ragazzino triste e ribelle – autore di un manifesto che infiammerà una rivoluzione studentesca.
Il lato fantastico emerge in alcune sequenze, come quella che vede Chalamet e una rivoluzionaria poggiati sui lati opposti di un jukebox, con le pareti del bar che scompaiono mostrando l’eleganza della cittadina francese.

Il personaggio più interessante dell’episodio è sicuramente la giornalista interpretata da Frances McDormand, la quale aiuta Chalamet nella stesura del manifesto e con cui ha una relazione.

Infine, il terzo episodio è quello che riprende tutti gli stereotipi del regista americano e proprio per questo motivo risulta il più debole, con una storia che rimanda troppo a Grand Budapest Hotel per il ritmo forsennato e che non permette però allo spettatore di entrare in empatia con i personaggi di questa vicenda bizzarra, in cui vediamo un giornalista del Dispatch alle prese con un caso di rapimento, tra intrighi e alta cucina.

Anche qui abbiamo uno stratagemma elevato dal punto di vista tecnico, il quale consiste in una ripresa animata che rimanda ai fumetti di Tin Tin e che coincide con il climax dell’episodio.

The French Dispatch dividerà anche stavolta il pubblico e i fan storici di Anderson: i primi apprezzeranno il primo episodio e le novità utilizzate dal regista sparse per la pellicola, criticando però il suo stile narrativo, mentre i secondi si perderanno nella città di Ennui, rappresentata sotto diversi punti di vista e colori.