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Un altro caso di “vittoria mutilata”: il Giappone degli anni Venti

di Federico Battaglia

«Vittoria nostra, non sarai mutilata», con questo avvertimento lanciato sulle colonne del Corriere della Sera, Gabriele d’Annunzio coniò uno dei termini più simbolici del Novecento italiano. La Prima guerra mondiale si era appena conclusa con la vittoria dell’Intesa sugli Imperi centrali e l’Italia, alleata con Francia e Inghilterra, aveva conseguito una vittoria schiacciante sull’Austria-Ungheria. Malgrado il successo e l’alto numero di perdite, alle trattative di pace i delegati italiani non riuscirono ad ottenere i territori promessi dal Patto di Londra del 1915. La delusione che ne seguì scatenò ondate di polemiche nei confronti della classe dirigente e creò un generale stato di insoddisfazione nell’opinione pubblica. Una situazione analoga si ebbe anche in Estremo Oriente, in quello che ai tempi era l’Impero giapponese.

Paese industrializzato e dotato di una flotta efficiente, il Giappone degli anni Dieci si affacciava sullo scenario internazionale come una grande potenza economica. La modernizzazione che era stata iniziata dall’imperatore Meiji, tra il 1866 e il 1869, aveva dato i suoi frutti, aprendo il paese ai commerci esteri e cambiandolo nelle strutture sociali. Queste trasformazioni non solo aumentarono la tenuta finanziaria dello Stato nipponico ma lo misero in contrasto con quegli attori occidentali che si erano spinti fino in Asia. Tra questi figurava la Germania che poteva contare su un alto numero di colonie nel Sud-Est asiatico e in Cina, tra le quali le isole Bismarck, la penisola dello Shandong e il porto di Tsingtao.

Da tempo in buoni rapporti con la Gran Bretagna, l’esecutivo giapponese non esitò nel dichiarare guerra al Kaiser nel 1914, allo scoppio del primo conflitto mondiale. Gli scontri si limitarono ai possedimenti tedeschi che furono facilmente occupati dalle truppe imperiali. Nel giro di qualche mese le ostilità cessarono e consacrarono la superiorità militare di Tokyo che poté, in questo modo, spostare le proprie attenzioni sul vicino cinese. A fronte delle crescenti difficoltà dell’Intesa, completamente assorbita dallo sforzo bellico in Europa, i ministri del Sol Levante decisero di mettere in atto una politica finalizzata a trasformare la Cina in una loro colonia. Senza la vigilanza anglo-francese, vennero avanzate al presidente della Repubblica cinese, Yuan Shikai, le “Ventuno richieste”, mediante le quali il Giappone intendeva controllare le scelte economiche e di politica estera della debole repubblica, sorta nel gennaio 1912. Anche se il governo presieduto da Shikai accettò soltanto sedici delle ventuno richieste, i giapponesi proseguirono nella loro offensiva diplomatica, stringendo dei patti segreti finalizzati al mantenimento di una posizione privilegiata anche al termine della guerra.

Con la fine dei combattimenti, si cominciarono ad intavolare quegli accordi che avrebbero dovuto regolare l’ordine mondiale dopo gli stravolgimenti portati dal conflitto. Alla Conferenza di Versailles la rappresentanza nipponica guidata da Saionji Kinmochi non fu in grado di far accogliere tutte le istanze presentate. Al Giappone fu assegnato un mandato di controllo sulle isole del Pacifico ex-tedesche e fu concessa l’acquisizione dei diritti sulle miniere e sulla ferrovia nella penisola cinese del Jiaochou, precedentemente in affitto alla Germania. La questione dello Shandong, invece, fu rimandata a trattative dirette con la Cina, anch’essa alleata dell’Intesa.

La Conferenza di Versailles

Tuttavia, il punto di maggior attrito tra Kinmochi e gli Alleati non si ebbe tanto nella spartizione territoriale quanto in una rivendicazione di carattere etnico. Il mancato riconoscimento della parità razziale tra bianchi e asiatici, a cui si opposero il Presidente americano Woodrow Wilson e quello australiano Charles Evans Hughes, svolse una parte decisiva nel corso delle consultazioni. Il rifiuto di approvare la proposta giapponese era da ricercarsi nel timore da parte dei governi americano e australiano per la crescente immigrazione di cinesi e di coreani.

La sconfitta politica della delegazione a Versailles ebbe grandi ripercussioni all’interno del blocco di potere dominante. Tra i funzionari governativi nipponici crebbe l’opinione che le potenze occidentali, nonostante il supporto economico e militare dato alla lotta contro la Germania, intendessero mantenerli ad un ruolo di subordinazione. Tra ampi strati della popolazione venne consolidandosi un acceso sciovinismo che accentuò ancora di più l’antioccidentalismo, fondandolo su principi di contrasto all’imperialismo bianco.

Membri della delegazione giapponese in Francia

I risultati scaturiti dalla Conferenza di Versailles furono percepiti come degli insuccessi diplomatici anche dai gruppi nazionalistici. Questi ne approfittarono per organizzare una solida azione di propaganda, conquistando sempre maggiore seguito fra i comandi dell’esercito e i ceti piccolo-borghesi. Comparvero slogan, ci furono delle manifestazioni pubbliche, la società venne percorsa da forti tensioni sociali.

Il culmine si raggiunse nel novembre del 1921 quando un fanatico nazionalista assassinò il primo ministro Hara Takashi, ritenuto il responsabile principale dei cedimenti giapponesi in Francia.

Il primo ministro Hara Takashi

La morte di Hara andò ad aggravare una situazione che stava lentamente precipitando. Nelle fabbriche e nelle campagne si ebbero le prime avvisaglie di crisi dovute alla guerra sostenuta. La drastica riduzione delle esportazioni dopo il ’14 -’18 scosse le fondamenta dell’Impero che dovette far fronte agli scioperi operai. In un simile contesto si inserirono gli intellettuali e i membri della borghesia urbana, da tempo sostenitori dell’istituzione del suffragio universale e di una revisione della Costituzione, introdotta nel lontano 1889. Tutti questi fattori fecero sì che si creasse una certa instabilità tra i confini nipponici, instabilità che portò subito ad una svolta in senso autoritario.

Come stava accadendo nell’Italia di Mussolini, il governo procedette all’introduzione di misure repressive contro i propri oppositori. Nel 1925, stesso anno dell’introduzione del diritto di voto per tutti gli uomini, fu approvata la Chian ijiho, la cosiddetta “Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico”. Questo provvedimento nacque dalla preoccupazione dell’amministrazione centrale sia per le agitazioni politiche e sociali sia per i possibili mutamenti di forza in conseguenza dell’allargamento della base elettorale. La promulgazione della Chian ijiho consentì ai vari ministeri e alle forze di polizia di colpire “legalmente” ogni opinione difforme dall’ideologia dominante.

I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: furono incriminati molti studenti universitari e furono arrestati i dirigenti del Partito comunista, nato in seguito alla vittoria dei bolscevichi russi nella guerra civile. La repressione di ogni dissenso fu facilitata dall’azione di due corpi specializzati nella coercizione: la Tokkō e i procuratori del pensiero. La prima svolgeva le funzioni di una polizia segreta che contribuiva alla diffusione del terrore, i secondi prestavano servizio nei tribunali e si impegnavano a convincere il “sovversivo” che le sue teorie erano sbagliate. Ci fu, a tutti gli effetti, una deriva di stampo fascista.

Prigionieri politici internati dal regime

Seppur emersero delle differenze sostanziali con il caso italiano, il fascismo nipponico si rivelò ugualmente spietato. Di lì a poco la popolazione avrebbe assistito alla formazione di un regime militarista che si sarebbe opposto alle democrazie occidentali negli anni della Seconda guerra mondiale.

E fu proprio per l’avversione nei confronti di queste ultime che si ebbe quell’elemento determinante nel consolidamento di un sistema totalitario. Il Giappone era stato illuso dagli Alleati, tradito dalle loro decisioni e dallo loro assente trasparenza. Prevalse un giudizio fortemente negativo sulle volontà degli Stati dell’Intesa, incolpati di non aver riconosciuto quell’appoggio militare e finanziario portato avanti durante il conflitto. La delusione e il nazionalismo che ne seguirono costituirono il giusto contesto per lo sviluppo di un apparato e di una cultura di connotazione fascista.

Al pari degli italiani, i giapponesi si ritrovarono a dover affrontare il loro orgoglio ferito in un periodo di estrema fragilità. Con la costante minaccia di una rivoluzione comunista sull’esempio russo e con l’avversa congiuntura economica, i blocchi di potere ebbero gioco facile nell’avviare un nuovo complesso ideologico e di oppressione che sarebbe durato per più di vent’anni.