Libri

“Il mare in base al vento” di Valentina Perrone

Recensione di Renato De Capua

(Le parti in corsivo comprese tra le virgolette sono tratte da: “Il mare in base al vento”, di V. Perrone)

Valentina Perrone vive tra Guagnano e Salice Salentino (Lecce). Laureata in Pedagogia dell’Infanzia e in Scienze Pedagogiche, è  giornalista pubblicista e collabora con il Nuovo Quotidiano di Puglia. È autrice dei libri “Un caffè in ghiaccio con latte di mandorla” (2015), “Memorie di Negroamaro” (2017) e “Il mare in base al vento” (2019). Il suo sito web: www.valentinaperrone.it

Il titolo del nuovo romanzo di Valentina Perrone, “Il mare in base al vento” (Kimerik, 2019), è evocativo, poiché richiama due elementi naturali che sospingono lievemente la nostra vita, accompagnando i nostri giorni nel loro essere quotidiani. E la letteratura, oltre a essere ambito della finzione, terreno fertile per la voglia che l’uomo ha di plasmare e di dar forma alle cose, lascia spazio all’inaspettato e all’inatteso, così come l’amore che, nelle pagine di questo romanzo, è protagonista e si lascia esplorare in ogni sua declinazione, pagina dopo pagina.

“L’amore sfuma i contorni e a volte stravolge le immagini. Spesso rende bello ciò che ad altri potrebbe sembrare pessimo. Altre volte, invece, dona luce nuova a ciò che già brilla. Ecco perché le cose e le persone, da un certo punto in poi, splendono.” Questo si legge in un passaggio del testo. L’amore è quel sentimento che riesce ad aggiungere valore a ciò che già si distingue da sé, riesce a conferire all’occhio di chi osserva una nuova prospettiva dalla quale interrogare la realtà e, nel nostro caso, è quel fattore discriminante che fa comprendere a Silvia, la protagonista di questa storia, “la differenza tra la me che ero e la me che stavo diventando”.

Silvia ha trentadue anni e di mestiere fa la libraia, vive una vita ordinaria, basata sull’adesione ad una solida sfera valoriale (famiglia e amicizia) e qualche fantasticheria su sogni nel cassetto ancora da realizzare. La sua realtà di solide certezze verrà messa in discussione con l’arrivo inatteso di Carlo, un affascinante ingegnere che, in punta di piedi, entra nella sua vita. È così, dal caso, i loro destini s’incroceranno, tessendo l’intreccio narrativo della storia che si dipana, crescendo, tra le pagine.

Nel romanzo, sono pochi i personaggi che si aggirano tra le parole, le immagini e le suggestioni, vergate dalla penna dell’autrice, ma essi sono portatori di una stretta affinità tra i ruoli da loro interpretati e le istanze che accomunano l’esistenza dell’uomo.

Paola e Marco, spiegheranno al lettore che cos’è l’amicizia, e quanto spesso essa possa fare la differenza. I rapporti relazionali sono, però, diversi: il legame con Paola, s’intensificherà gradualmente e in maniera spontanea; quello con Marco più che un legame qualsiasi, è forse il simbolo dell’amicizia al suo più alto grado, ovvero, quando essa diviene certezza; e lo stesso vale per la relazione che Silvia ha con i suoi genitori, un porto sicuro al quale poter fare ritorno sempre, qualunque vento spiri. E infine Carlo spiegherà l’amore in tutta la complessità che lo contraddistingue, e sarebbe più appropriato dire, che sarà l’incontro tra Silvia e Carlo, a spiegare la vastità di questo sentimento con le sue pieghe, poiché è proprio nell’interazione con l’altro che l’amore nasce e cresce, che il singolo passa dall’ “è” al “siamo”.

E rimanendo nell’ambito dell’affascinante sfera della diversità, parliamo delle ambientazioni. Esse sono morfologicamente diverse, quasi opposte, eppure nella realtà coesistenti: il mare e la città; Santa Maria al Bagno e Lecce, in Puglia. Contemplando la bellezza del mare, Carlo dirà a Silvia:

“Siamo fortunati, noi” […]

“Penso alle volte in cui scegliamo il mare in base al vento. Ti sarà capitato, no? D’estate. Di scegliere lo Ionio quando soffia la tramontana e l’Adriatico se spira lo scirocco. Il mare agitato non ci piace quasi mai, per questo andiamo sempre dove possiamo goderne la pace.”

Ecco spiegato, in poche battute, il senso del titolo di questo libro, che trae origine da un’azione piuttosto quotidiana e semplice, che, all’interno del romanzo, diviene metafora di una scelta esistenziale, rispetto alla quale l’uomo è chiamato a pronunciarsi continuamente, essendo in grado di essere artefice del proprio destino. E leopardianamente altro dirti non vo’, perché è del lettore il compito di trarre le proprie conclusioni; di una storia che saprà certamente tenervi avvinti alla lettura, per rispondere al tanto fatidico “come andrà a finire?”. Pertanto, concludo, riportando due passaggi del testo che “geograficamente” all’interno dell’opera, sono distanti, ma che forse ci danno la percezione di quando la scrittura di un libro sia, oltre che un buon risultato, la retrospettiva di una vita:

“Il tempo non aspetta. Non è come il mare che c’è sempre, il vento che rinasce, il sole che brilla e la notte che torna. È un dono grande per noi che siamo solo di passaggio, naviganti in balia della vita, anime coraggiose che patiscono, soffrono, amano, scelgono, vivono. Nella ricerca continua di un approdo, di un porto sicuro, di braccia , di mani con cui lasciare tracce, segni impronte. Con cui testimoniare l’amore.”

E come un navigante alla ricerca della sua Itaca, è la stessa Silvia a dirci:

“Ho lasciato che fosse il vento a decidere, e adesso mi ha portato qui. Non so dove mi condurrà nei giorni che verranno, mi affido a lui. Se è capace di suggerire il mare, forse saprà anche indicarmi la strada verso la felicità. Ma se non glielo concedo, come dici tu, non lo saprò mai.”

Un invito, quest’ultimo, a lasciarsi trasportare, a vivere con coraggio, ad azzardare; a perdersi per poi ritrovarsi, ancora una volta, muti, con “occhi dentro occhi”.