di Pierluigi Finolezzi
In Clinamen-periodico di cultura umanistica – n.1, pag. 5
Nella nostra epoca, dominata dalla tecnologia e dai social network, sembra che non ci sia più posto per la letteratura e soprattutto tra i giovani si manifesta un disinteresse sia verso ciò che un’opera può trasmettere sia verso ciò che un autore può ancora dirci di utile per la nostra vita quotidiana. È proprio il concetto di “utilità” che distoglie lo sguardo dei molti dal mondo letterario: senza entrare nel cuore di quel poeta o di quello scrittore, senza cimentarsi nella conoscenza dell’opera, si sentenzia che la letteratura non sia utile, semplicemente perché non fornisce alcun profitto materiale. Un oggetto inutile viene abbandonato su uno scaffale o gettato nei meandri di un ripostiglio, nello stesso modo la letteratura procede inesorabilmente verso la sua morte.
Ma vale la pena di far morire veramente la letteratura? L’uomo è davvero in grado di vivere senza questo bene prezioso? Per Sartre, la letteratura è lo spazio nel quale, partendo dalle loro concrete esistenze storiche autori, personaggi e lettori dialogano tra di loro, si conoscono e si confrontano. Oggi siamo in grado di confrontarci sui social e di dimezzare le distanze tramite la rete e i mass media, ma restiamo fortemente ancorati sui nostri piedi senza essere in grado di spiccare il volo verso mondi lontani con il desiderio di scoprire delle novità che prescindano il web. Ed è per questo che ancora una volta la Fenice si rigenera dalla proprie ceneri e la letteratura riesce a trovare nuova linfa vitale in quella che dovrebbe essere la sua morte. Borges fa notare che la vita non può contrapporsi alla letteratura perché l’arte fa parte di noi stessi. Possiamo sforzarci ad uccidere la letteratura, ma nel momento in cui ci apprestiamo a compiere questo delitto dobbiamo renderci conto che non possiamo prescindere dal recarci ogni giorno sulla sua tomba. Anche nell’epoca del consumismo e della tecnologia, la letteratura non ha rinunciato alle sue funzioni. È l’unica a rendere intelligente il nostro cuore, a liberarci da automatismi di pensieri, a renderci empatici verso il mondo e gli altri, per dirla con D’Avenia “a tenere ancora vive in noi delle domande”. La letteratura non è ancora morta se preso in mano un libro siamo travolti dalle emozioni come Paolo e Francesca, se ci sentiamo persi nel mondo come Mattia Pascal o se investiti dalla nostalgia interroghiamo la luna sul nostro destino come Leopardi nel Canto Notturno. Sylvain Tesson nel suo Un’estate con Omero fa notare, in contrapposizione al pensiero di molti sociologi contemporanei, che l’uomo non è influenzato interamente dal progresso e che rimane lo stesso essere miserabile e grandioso sia che indossi un elmo sulla piana di Troia sia che si trovi su un marciapiede del XXI secolo in attesa di un autobus, da qui nasce quell’immedesimazione che si prova nei confronti dei personaggi di un’opera che ha più di duemila anni. La letteratura plasma personaggi a volte simili altre volte diversi da noi, ma ci consente anche di confrontarci con individui ed epoche diverse, più di quanto possa accadere su una piattaforma virtuale o sulle pagine di Wikipedia.
È questa, come afferma Eco, la forza immortale della letteratura che con i suoi “poteri immateriali” riesce a farci invecchiare consapevoli di aver vissuto mille vite e a trasformarci in esseri diversi da tutti quelli che hanno preferito una sola vita nella monotonia e nell’apatia dell’età del consumo. La letteratura quindi non può morire, la letteratura non è ancora morta!