Oltre il confine

A che serve la letteratura? La risposta di Svevo

I ragazzi del Liceo “Pietro Siciliani” di Lecce incontrano la prof.ssa Beatrice Stasi

a cura di Lucia Errico


“La cura non riuscì, ma le carte restarono. Come sono preziose!
Mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi.


Italo Svevo, I racconti, a cura di C. Magris e G. Contini, Garzanti 2004

Curiosi, attivi, sempre in esplorazione. I nostri studenti possiedono quello che Alessandro D’Avenia ha definito «l’istinto dell’interessante», quell’istinto che li aiuta ad avvertire subito se quell’attività conoscitiva li farà crescere. Sognano una scuola interessante: per questo, aprendo la strada alla lettura e alla scrittura – della globalità, della complessità, delle esperienze – si possono accogliere due concetti che Agostino intendeva rispettivamente come suggestione spontanea e come impegno conoscitivo vero e proprio nell’orizzonte di significati e di valori personali di ciascuno: curiositas e studiositas. L’educazione alla lettura, alla scrittura, alla letteratura, si pone, infatti, come finalità della lectio magistralis che il 5 dicembre 2022 la Prof.ssa Beatrice Stasidocente di Letteratura italiana, Critica letteraria e Letterature comparate all’Università del Salento – ha tenuto presso il Liceo “Pietro Siciliani” di Lecce e intitolata A che serve la letteratura? La risposta di Svevo.

La Prof.ssa Beatrice Stasidocente di Letteratura italiana, Critica letteraria e Letterature comparate all’Università del Salento

Beatrice Stasi ha avviato un dialogo con l’opera di Svevo attraversando i tre romanzi “come i tre regni danteschi”: dal narratore esterno di Una vita allo sbriciolamento, alla frammentazione della forma unitaria di un romanzo in forma diaristica, La Coscienza di Zeno, in cui il paziente manipola il trattamento del tempo, in cui si rompe il patto narrativo tra autore e lettore.

Grazie al suo sguardo, gli studenti hanno percorso l’opera sveviana entrando ora in un romanzo ora nell’altro, cogliendo gli echi dell’uno nell’altro, considerando come si intersecano e si rispondono temi come l’inquietudine per l’inconoscibilità dell’io, per l’illeggibilità del mondo dell’uomo estromesso dall’ingranaggio sociale, di personaggi, di “antieroi” fermi per sempre in quella linea che separa giovinezza ed età adulta, che non possono crescere perché non comprendono quando la vita è cominciata, che si sentono inferiori agli altri nei rapporti sociali, ma superiori intellettualmente perché conoscono i classici e il latino («Se mi dessero in mano un classico latino lo commenterei tutto, mentre essi non ne sanno il nome», scrive Alfonso Nitti in una lettera alla madre dopo il trasferimento dalla campagna alla città, Una vita, cap. I).

La coscienza di Zeno, uno dei massimi capolavori della letteratura italiana del Novecento, ha ricevuto un giudizio “stroncatorio” e “ingeneroso” (Beatrice Stasi, La coscienza di Italo Svevo: «Zeno va bene così, lo si pubblichi» Corriere della sera del 3 aprile 2021) da Attilio Frescura, scrittore e giornalista cui l’editore Cappelli aveva affidato la revisione linguistica del finale prima della pubblicazione del romanzo (richiedendo un pagamento per la pubblicazione). Nel 2021, Stasi ha vinto il Premio InediTO- Colline di Torino (20ª edizione) per la scoperta di una lettera inedita, scritta nel 1923 da Italo Svevo “per rivendicare l’integrità stilistica e linguistica del finale”: «Zeno va bene così, lo si pubblichi». Il resoconto di questa scoperta ha posto negli studenti un interesse eccezionale per le vicende editoriali dei classici che studiano e, sono certa, per quelli che studieranno.

La studiosa ha proposto una lettura dell’opera sveviana anche in rapporto alla cultura psicoanalitica e alla dinamica di amore e odio verso un padre onnipotente, rappresentante della morale borghese e patriarcale: gli studenti hanno potuto riflettere su quanto il paradigma psicoanalitico di un rapporto antagonistico e tormentato tra padre e figlio si riproponga con efficacia nel capolavoro di Svevo.

A partire da questo invito, hanno in seguito indagato tale problematica all’interno della produzione letteraria e artistica moderna e contemporanea: c’è nella Lettera al padre, scritta dal grande scrittore praghese Franz Kafka nel 1919 al padre e mai spedita (è stata pubblicata per la prima volta in tedesco nel 1952); c’è crisi nel rapporto tra un padre e un figlio anche nella parabola del figliol prodigo dipinta da Giorgio De Chirico nel 1922: qui il padre è una statua immobile, biancastra, che sembra tendere verso un manichino vigoroso, imponente – il figlio – che imbraccia squadre e righe a suggerire, forse, un’ambigua lotta tra un passato saldo (ma inamovibile) e un futuro che con forza vuole dare nuova forma al mondo; c’è, ancora, nella Pittsburgh degli anni Cinquanta di Barriere di Denzel Washington (2016), film tratto dalla pièce teatrale di August Wilson e incentrata su una famiglia di colore della working-class americana. Si racconta qui un “impedimento d’affetto”: «E chi dice che dovrei amarti?», risponde il padre Tony al figlio Cory che gli chiede perché non lo abbia mai amato.

Barriere, 2016

Anche le geografie letterarie hanno conosciuto nuovi sensi: così, di Trieste, gli studenti hanno letto le contraddizioni, la nostalgia per l’Italia ma anche per l’Impero Austro-Ungarico del quale ha fatto parte fino alla fine della Prima Guerra mondiale. Nel contesto della crisi della Mitteleuropa, Trieste ha ospitato molte voci e molti incontri – Svevo, Joyce, Saba, Magris – riflessi in una letteratura di frontiera in cui sono state recepite prima e più profondamente che altrove le influenze di Schopenhauer, Nietzsche,  Kafka, Musil, Dostoevskij.

 “Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che colla penna alla mano […] mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere”. In questa riflessione del dicembre del 1902, Svevo rivela la ragione dell’abbandono della letteratura. La studiosa ha condotto gli studenti alla scoperta dell’affermazione, in particolare ne La coscienza di Zeno, del valore terapeutico della scrittura rispetto alla psicoanalisi: è nella letteratura la risposta, non nella terapia. Se la malattia è intesa come un modo di essere non curabile e la memoria come custode ingannevole dei ricordi, il gesto dello scrivere, il fictum, la suprema bugia della narrazione assumono il significato di un’autoanalisi, di una riparazione, di una terapia, di una cura: dell’unica cura possibile.

Si legge, infatti, nei Racconti: “Io non mi sento vecchio ma ho il sentimento di essere arrugginito. Devo pensare e scrivere per sentirmi vivo perché la vita che faccio fra tanta virtù che ho e che mi viene attribuita e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. […] Perciò lo scrivere sarà per me una misura di igiene cui attenderò ogni sera poco prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura sarà riuscita” (I racconti, a cura di C. Magris e G. Contini, Garzanti 2004).